Il grande giorno è arrivato. Il 3 ottobre, dopo aver sbancato a Venezia, strappando il Leone d’Oro, "Joker" si presenterà davanti alla sua giuria più severa, il pubblico. Una platea, quella delle sale cinematografiche, composta da persone diverse, non necessarimente esperte, e per lo più legate ancora al ricordo di una grande interpretazione, quella di Heath Ledger.
Il suo è stato probabilmente uno dei Joker più feroci e spietati della storia, tanto che la leggenda vuole che sia morto proprio a causa sua. Heath Ledger fu trovato nella sua casa di New York il 22 gennaio 2008, all’età di 28 anni. L'autopsia ha rivelato che è deceduto a causa di una intossicazione da farmaci, regolarmente prescritti dal suo medico. Si era calato talmente tanto nella parte da ammalarsi di depressione. Per queste ragioni, si pensava che nessuno mai sarebbe riuscito a superare quell’interpretazione, raggiungendo quella profondità e quel malessere. Nessuno fino all’arrivo di Joaquin Phoenix.
Il dolore e l’alienazione sono il cavallo di battaglia dell’attore 44enne, che più volte si è trovato a impersonare uomini fragili e psicolabili, vedi Commodo ne "Il Gladiatore" o Leonard Kraditor in "Two Lovers". Con estrema facilità riesce a trasferire il suo tormento nei personaggi che interpreta e lo stesso è accaduto con "Joker".
Il film pensato e diretto da Todd Phillips vuole raccontare la storia di Arthur Fleck che ne “Il cavaliere oscuro” è appena accennata: lui è un comico che non fa ridere, magro e curvo, pieno di lividi, figlio di una donna malata, lui stesso malato e abbandonato dai servizi sociali. Anche i momenti di “violenza” trovano finalmente una ragion d’essere e così il “cattivo” non è più tale. Questa è la forza del nuovo film sul pagliaccio malefico: non si riesce più a distinguere in maniera nitida il bene dal male, e prendere una posizione non è più così semplice.
Senza nulla togliere all’interpretazione esemplare di Joaquin Phoenix, ma la vera novità sta nell’idea.
Quella di rappresentare da un lato la malattia mentale in maniera diversa, non solo come una patologia, ma come un "disagio, che è il risultato di prolungati traumi, familiari e sociali"; dall’altro una società, che pur avendo il compito di combattere questo malessere, non sa da dove cominciare.
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