Letteratura e sociologia: i saggi profetici di Bellow

In "Troppe cose a cui pensare", 50 anni di giudizi dello scrittore: dall'editoria al destino dell'uomo

Letteratura e sociologia: i saggi profetici di Bellow

Gli esseri umani? «Dei playboy dell'Esperienza». Gli scrittori contemporanei? «Degli impotenti, e con impotenza alludo alla perdita o all'assenza di ogni empatia, alla mancanza di sentimenti: scrivono con la morte nel cuore». I protagonisti dei romanzi? «Tutti incarnano la stessa storia. Il terrore è grande e l'anima è piccola; l'uomo può essere simile a Dio, ma è caduto in disgrazia: il cuore dovrebbe aprirsi al mondo, ma è sigillato dalla paura». La letteratura? «Sta assumendo una vena sportiva, come l'hockey o la boxe. Gli editor si comportano spesso come promotori di incontri pugilistici». L'editoria? «La cultura oggi viene allestita, confezionata e distribuita. Ma dietro questa parvenza (di creatività) non c'è alcuna sostanza: c'è solo l'idea». Le università? «Non hanno educato i giovani in modo corretto. Sono responsabili della crescita impetuosa di un'incapacità addestrata».

Sono questi soltanto alcuni dei giudizi espressi dal premio Nobel per la letteratura Saul Bellow in Troppe cose a cui pensare, raccolta di saggi inediti dello scrittore canadese, naturalizzato americano, in arrivo nelle librerie per Sur Edizioni nella curatela e traduzione di Luca Briasco (pagg. 356, euro 20). Raccolta che segue quasi fedelmente l'originale There Is Simply Too Much To Think About. In queste Troppe cose a cui pensare possiamo leggere i saggi che vanno dal 1951 al 2000: se nell'edizione americana sono raccolti per decadi, la scelta (vincente) di Briasco è quella di dare agli scritti un ordine narrativo, riuscendo ad ottenere una leggibilità di molto maggiore. Certo non ci sono tutti i saggi, come nell'originale, ma la scrittura non narrativa di Bellow, purtroppo, è sparpagliata in Italia per vari editori: da I conti tornano (da anni fuori catalogo per Mondadori) a La chiusura della mente americana (Lindau) a Prima di andarsene. Conversazione di Saul Bellow con Norman Manea (Il Saggiatore). Quello che è certo è che l'autore di capolavori da Nobel come i romanzi Herzog, Le avventure di Augie March, Il pianeta di Mr. Sammler e Il dono di Humboldt non perde in questi saggi la potenza della propria scrittura. Come ha scritto Martin Amis per The New York Times Book Review, «Leggendo Bellow tu sei sempre lì a chiederti quale altro scrittore così intellettualmente alto abbia la stessa capacità di afferrare la realtà della strada, della macchina, dei tribunali, della malavita».

Sposato cinque volte, con quattro figli, vincitore di un Premio Pulitzer, tre National Book Awards, innumerevoli premi internazionali e nel 1976 del Premio Nobel, i suoi personaggi sono un simbolo della civiltà contemporanea, corrosi dalla nevrosi, disillusi, dubbiosi alla ricerca costante di una ragione per esistere. In Herzog, il suo romanzo più conosciuto, protagonista è un professore di mezza età che sfoga le proprie angosce esistenziali scrivendo lettere, mai spedite, al presidente degli Stati Uniti e a Dio stesso.

In questi ventuno saggi inediti in Italia, oltre agli attacchi frontali al mondo letterario e editoriale, recensioni (da Philip Roth a Hemingway sino al Salinger migliore nei racconti e ne Il Giovane Holden) ci sono tantissimi spaccati sociologici, a dir poco incisivi per lucidità e prosa. Come quando Bellow, nel 1962 in Dove andremo a finire, scrive: «L'immaginazione sta cercando nuovi modi per esprimere la virtù. La società è vittima di una serie di menzogne sulla virtù, a cui oggi nessuno crede veramente. Sono queste allegre menzogne a generare il loro opposto nella narrativa: una letteratura cupa, fatta di vittimizzazione, di personaggi vecchi piazzati dentro bidoni dell'immondizia in attesa di esalare l'ultimo respiro. Questo è lo stato dell'arte, e resta solo una cosa da aggiungere: abbiamo appena cominciato a comprendere che cosa sia un essere umano, e forse le figlie del fornaio hanno ancora rivelazioni e miracoli da offrire, in tale quantità che un romanziere pronto a lasciarsene affascinare potrà tenersi occupato fino alla fine dei suoi giorni». Perché Bellow tra queste pagine ci dimostra come siamo sempre in bilico tra ciò che vorremmo e dovremmo avere e ciò che abbiamo. Siamo tutti everyman che lottano con quella «luck and pluck», quella «fortuna e audacia» che non sempre basta a realizzare i nostri sogni.

Nel 1957, anticipando quelle che saranno le teorie di molti sociologi (da Neil Postman a Paul Virilio e Jean Baudrillard) sottolinea come «non è mai accaduto che la nostra mente fosse sottoposta a tante sollecitazioni diverse. Le biblioteche o i musei sono immensi magazzini, con capolavori di ogni stile. La loro vastità e ricchezza scatena le nostre ambizioni e può trasformare molti uomini mediamente colti in un Doctor Faustus, o minacciare di ucciderli per eccesso di distrazioni». La vera minaccia per lo scrittore - scrive nel 1974 - è l'essere eternamente distratti: «Oggi il Grande Rumore è il vero nemico. E non mi riferisco solamente al rumore della tecnologia, del denaro e della pubblicità, al rumore dei media e della maleducazione diffusa, ma alla terribile eccitazione e distrazione generata dalla crisi della modernità. Il rumore della vita.

A crearlo contribuisce tutta una serie di fattori, reali o meno: ideologie, giustificazioni razionali, errori, illusioni, opinioni, analisi ospitate sui media, faziosità diffuse, retorica ufficiale e notizie di ogni genere. Per farla in breve, le mille voci della sfera pubblica, il frastuono della politica, la turbolenza e l'agitazione che hanno ormai invaso le nostre vite».

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