"Libertà" per i conformisti. Tutti gli altri devono tacere

Il nuovo diritto di espressione vale per tutti tranne per chi canta fuori dal coro. Dunque non esiste...

"Libertà" per i conformisti. Tutti gli altri devono tacere

Contro il politicamente corretto è il sottotitolo di La nuova censura, di Alain de Benoist, appena uscito per Diana edizioni (traduzione di Marco Tarchi e Giuseppe Giaccio, 154 pagine, 15 euro). Senza quel sottotitolo non si comprenderebbe l'aggettivo che connota il pamphlet in questione, in quanto le censure nel corso della storia ci sono sempre state, ma quella attinente alla cosiddetta società postmoderna, ovvero la società degli individui, ha una sua specificità che le rende diversa e che ha nel pensiero unico, appunto, della correttezza politica la sua ragion d'essere.

Vediamo di spiegarci meglio. Fino all'altro ieri, che è poi la metà abbondante del secolo scorso, la libertà di pensiero e di espressione restava il caposaldo di ogni Stato liberale che avesse la democrazia come suo assunto. Si tratta, come dire, di un qualcosa di irrinunciabile e di non trattabile, non soggetto cioè a criteri di opportunità, di convenienza, di contingenza. Come sottolinea de Benoist, «la libertà di espressione non avrebbe alcun valore se potessero beneficiarne soltanto coloro che esprimono opinioni che chiunque giudica giuste e ragionevoli». Del resto, proprio perché essa è la condizione primaria della libera informazione delle idee, ovvero dell'esistenza di un dibattito democratico, «la libertà di espressione ha senso unicamente se le opinioni più scioccanti, le più offensive, e persino le più inesatte e le più assurde, se ne vedono garantire anch'esse il beneficio». Comunque la si voglia girare, insomma, nessuna censura è intellettualmente difendibile e ogni censura intollerabile.

Ora, quello che è paradossale è che in sistemi democratico-liberali avanzati, la Francia di de Benoist, o l'Italia, per restare in casa nostra, si assista ormai da anni alla presenza sulla scena di una volontà censoria che non potendosi appellare a una libertà di censura, controsenso troppo evidente da portare avanti, si ammanta di una moralità tutta propria. È insomma una censura etica, dalla parte del Bene, laddove i censurati non sono quindi delle vittime, ma dei colpevoli

Perché ciò sia possibile è necessario che venga accettato l'assioma che quello in cui si vive è non solo il sistema migliore, ma anche quello che non prevede ne consente alternative: è dominante proprio perché è unico. L'inevitabilità è l'altro suo assioma e infatti, come scrive de Benoist, «l'urbanizzazione e l'esodo dalle campagne, la generalizzazione del sistema salariale, l'onnipresenza della tecnica, il primato dei valori mercantili, la crescita dell'individualismo, le modalità di costruzione dell'Europa di Maastricht, per citare solo alcuni esempi, sono presentati come fenomeni inevitabili, come processi di cui non avrebbe senso discutere il valore, il significato, l'opportunità o la finalità». Che tutto questo sia stato prima frenato dalle tensioni del XX secolo, la lotta di classe, ideologie politiche in concorrenza e in contrapposizione fra loro, due guerre mondiali, e poi accelerato dal venir meno e/o dal fallimento delle ideologie, dal crollo dei modelli alternativi, dal rarefarsi del pensiero politico, è un dato di fatto. Ma è altrettanto un dato di fatto che «l'intero discorso politico odierno si fonda su presunte costrizioni' inaggirabili che in realtà non sono altro che credenze ideologiche sistematicamente presentate come fatti oggetti che dovrebbero imporsi a tutti». Ne deriva che «per il pensiero unico, mettere in dubbio una delle affermazioni dell'ideologia dominante significa già uscire dal dibattito». Il che ha come corollario «uno straordinario conformismo, che rende realmente insopportabile qualunque idea dissidente, qualsiasi pensiero non in conformità».

È questa logica a rendere giusti, moralmente sostenibili comportamenti che nella norma dovrebbero essere inaccettabili: librai che rifiutano di mettere in vendita libri di cui non apprezzano il contenuto, editori esclusi da un salone del libro perché la loro produzione non è conforme alle convinzioni personali degli organizzatori, petizioni per mettere al bando l'editore censurato e non il salone che nei fatti lo censura, petizioni per contestare l'acquisizione di archivi «sospetti» perché non in linea, eccetera

Viene anche da qui l'utilizzo estensivo di termini, in Italia ci andiamo a nozze, quali fascismo e antifascismo, trasformati di fatto in categorie incarnanti il Male e il Bene, in realtà concetti caucciù, teste di turco, capri espiatori. Sorvolando sul fatto che fino a ieri per i comunisti il fascismo era anche il capitalismo, in quanto suo terreno di coltura, assistiamo al teatrino di ex o post comunisti che si ammantano di antifascismo proprio perché hanno aderito al pensiero unico e al sistema esistente, si sono pentiti, «il Pentito è la figura centrale del nostro tempo», chiosa de Benoist, e sono divenuti i cani da guardia di quello che era un tempo l'odiato capitalismo mercantile.

Se però si va più in profondità, il discorso sul fascismo e i suoi pericoli, inesistenti ma strumentalmente enfatizzati, rientra in un campo di idee più ampio che vale la pena affrontare. Giorni fa, su Repubblica, in un articolo sui cosiddetti «italiban» di destra e di sinistra, Francesco Merlo si è lanciato in un'intemerata contro «i pacifisti assoluti». Merlo è un bravissimo giornalista, a cui invecchiando è venuta la mania del sopracciò, che altro non è se non la versione colta del marchese del Grillo: è sempre sdegnato e sdegnoso, e sempre con sussiego e insomma, «io so' io» con quel che segue. Nell'indignarsi contro chi non sceglie cita «i pacifisti che nel '39 gridavano nelle strade di Parigi di non voler morire per Danzica e si sa come è andata a finire» Ho paura che Merlo non lo sappia. Si entrò in guerra per difendere la Polonia e a guerra finita la Polonia passò da Hitler a Stalin e con essa tutta l'Europa orientale...

È un punto che spiega bene l'utilizzo ossessivo dell'antifascismo, ovvero la coda di paglia che porta con sé. De Benoist cita in proposito un articolo rivelatore di Jean Daniel, mitico direttore del Nouvel Observateur, uscito nel 1993, ma perfettamente attuale: «Il nazismo era il male assoluto. A partire dal momento in cui ci si è messi a dire Hitler=Stalin tutto è cambiato () Soprattutto, questo rimette in discussione una scelta fondamentale. Se i totalitarismi comunista e nazista vengono confusi l'uno con l'altro, perché scegliere, anche durante la guerra, l'Unione Sovietica invece della Germania hitleriana?». Sorvolando sul concetto storico un po' zoppicante di «scelta», è la conclusione che interessa: «Non bisogna cedere un pollice su questo terreno, altrimenti tutti i valori, tutte le nostre fedeltà, tutte le nostre memorie crolleranno». Siamo insomma al puro manicheismo, a una sorta di religione laica di ricambio, «la fede nel Male politico o ideologico assoluto», come nota de Benoist, «la storia trasfigurata in mito e rappresentata in bianco e nero», la storia che diventa morale e perciò incomprensibile. Soprattutto, significa non voler fare bene i conti con l'altro totalitarismo del XX secolo, perché se così si facesse «si sgretolerebbero le basi di legittimazione dell'ordine politico mondiale scaturite dalla vittoria del 1945».

Quell'alleanza, insomma, rimane per le democrazie una vera camicia di Nesso e «bisogna che quel sistema resti a distanza dal sistema nazista, così da sottolineare l'unicità' di quest'ultimo».

Sbrigativamente, aveva capito tutto Churchill al tempo della guerra fredda: «Abbiamo ucciso il porco sbagliato» era stato il suo icastico commento a ciò che era successo prima. Churchill aveva tanti difetti, ma non era politicamente corretto. E forse è per questo che il politicamente corretto dei nostri tempi, nella sua versione Cancel Culture, ne butta giù le statue che lo raffigurano.

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