Alzi la mano chi non ha mai curiosato in una libreria senza portarsi a casa un volume di uno scrittore ignoto, magari perché la copertina aveva suggestioni irresistibili o, semplicemente, perché il libro in questione era un bell'oggetto.
Libri contro sigarette (Nuova Editrice Berti, pagg 94, euro 12; traduzione di Sara Aggazio) di George Orwell (1903-50) non è un libro di un autore ignoto, ma di certo è un oggettino allettante, talmente piccolo da stare nella tasca di una giacca. Eppure, malgrado le dimensioni ridotte, c'è tanta sostanza in questa raccolta di scritti risalenti al 1945-46 (con l'eccezione del primo, «Ricordi di un libraio», del 1936) in cui Orwell ci racconta cosa sia la scrittura per lui e pure quale forma di straordinaria attrazione esercitino i libri. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e i tempi sono certamente cambiati, con lo strapotere degli strumenti elettronici che sempre più fagocitano il passatempo della lettura, ma i principi sono gli stessi e le parole di Orwell, ancora una volta, pungono come punteruoli.
Siamo nella fase della maturità del grande autore inglese, morto nel 1950, prima ancora di compiere 47 anni. Il 1945 è l'anno della pubblicazione de La fattoria degli animali e la sua opera più celebre, 1984, sarebbe uscita nel 1948 e Orwell non avrebbe fatto in tempo a godere del suo successo. Si tratta di due romanzi rivoluzionari, malgrado qualcuno li abbia tacciati di moralismo strisciante, a tratti indigesto. Libri contro sigarette potrebbe piacere persino a quei lettori che mal digeriscono i predicozzi, persino quando mascherati da affreschi popolari. Le parole di Orwell, anche quando affronta il tema caro della scrittura, appartengono di diritto al suo stile abituale: asciutto, talvolta talmente semplice da far storcere il naso a chi lo ritiene didascalico. Nulla di più falso: non c'è il minimo autocompiacimento dell'autore in nulla di ciò che scrive e, in questi brevi saggi, lo dichiara apertamente, togliendo ogni dubbio al riguardo.
In «Ricordi di un libraio» c'è tutta la passione del lettore-scrittore che è pronto persino a lavorare in una libreria pur di restare nel suo ambiente. Eppure, non manca qualche battuta sagace. «La vera ragione per cui non mi piacerebbe rimanere nel commercio di libri per sempre è che, quando ci ho lavorato, ho perso il mio amore per i libri. Un libraio è costretto a mentire sui libri e questo porta a una sorta di repulsione nei loro confronti; ancora peggio è il fatto che deve sempre spolverarli e trasportarli avanti e indietro».
Nella sua carriera, Orwell fu pure un giornalista e saggista. In «Confessioni di un recensore» dice che «La maggior parte delle recensioni offre un resoconto dei libri inadeguato e fuorviante». Che avesse patito le angherie di qualche collega poco tenero nei confronti dei suoi scritti? Fatto sta che il concetto può essere valido tuttora.
Particolarmente esilarante è «I buoni libri brutti», in cui Orwell si appropria della buffa definizione coniata, sembra, da G.K. Chesterton. Il buon libro brutto è «quel tipo di libro che non ha alcuna pretesa letteraria ma che risulta più leggibile di tante produzioni serie cadute nell'oblio». Orwell inanella una serie di picconate ai danni di alcuni autori vanitosi e pretenziosi, con un sarcasmo che ricorda da vicino le simpatiche censure di Mark Twain ai danni di illustri colleghi, come James Fenimore Cooper. In fondo, «L'esistenza della buona brutta letteratura... ci ricorda che attività artistica e attività intellettuale non vanno sempre di pari passo». La capanna dello zio Tom è «un caso esemplare di buon brutto libro... Un libro involontariamente comico, pieno di insensati episodi melodrammatici, profondamente toccante e autentico».
In «Perché scrivo», Orwell esprime grande sincerità e predisposizione all'autocritica, oltre che una certa autoironia, tratto quest'ultimo che non sempre è parso evidente nella sua carriera. D'altro canto, La fattoria degli animali e 1984 non sono esattamente due commedie. Ma Orwell pare insistere sul fatto che l'esercizio della scrittura sia meno intellettuale di quanto lo scrittore medio pretenda. E si scrive per quattro ragioni: puro egocentrismo; ardore estetico; urgenza storica; fine politico. Inutile negarlo: Orwell è un autore politico, di convinzioni socialiste e al tempo stesso fortemente critico verso la deriva autoritaria dei tentativi di socialismo reale a cui aveva assistito.
Le sue stesse esperienze in seno alla polizia imperiale indiana, in Birmania, e la conoscenza dell'imperialismo e dei totalitarismi incrementarono il suo «disprezzo per l'autorità» e lo portarono «in contatto, per la prima volta, con la classe operaia». Orwell scrive perché vuole smascherare menzogne, ma pure perché il romanziere ha un afflato estetico che lo distingue dal semplice cronista.
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