In tempi di complottismo antiamericano arriva nelle librerie L'impero nascosto dello studioso statunitense Daniel Immerwahr , editorialista per The New York Times e The Guardian e considerato uno degli storici più importanti della Storia degli Stati Uniti del XX secolo. Come recita il titolo originale questo saggio racconta Come costruire un impero e come l'America sia riuscita ad imporsi in un mondo globalizzato soprattutto grazie a due aspetti: il progresso scientifico e industriale e la diffusione della lingua inglese. Immerwahr cerca di tenersi lontano dalla tentazione di raccontare la «cocacolizzazione» del mondo (come la definiscono i francesi) ma descrive come gli Stati Uniti sono riusciti a «standardizzare» il mondo non solo occidentale «al di là dei confini politici ottenendo influenza in luoghi che non controllavano perché, attraverso le tecnologie, si sono allontanati dall'usuale modello di impero formale rimpiazzando la colonizzazione con la globalizzazione».
Gli americani iniziarono con quella che la celebre rivista Fortune nel 1940 cercò di rappresentare pubblicando la mappa di un «nuovo continente delle materie plastiche», chiamato «Synthetica» e composta da paesi come «Vinile»,«Stirene acrilico» e «Isola del Nylon». Sembra fantascienza ma non lo è: era, invece, «una nuova frontiera, non più coloniale, ma chimica». Il Giappone aveva iniziato a ridurre rifornimenti vitali agli Stati Uniti. L'esercito americano, quindi, iniziò ad usare la plastica, fatta prevalentemente con il petrolio, per sostituire ogni materiale «strategico» che fosse diventato strategico procurarsi: il plexigas venne impiegato per sostituire i vetri per gli abitacoli degli aerei; il cellophane servì a conservare il cibo al posti delle lattine e, mescolata con il vetro della vetroresina, la plastica venne impiegata addirittura per costruire aeroplani. In un decennio, immediatamente dopo la fine della II Guerra mondiale gli Stati Uniti riuscirono a plastificare anche l'immaginario collettivo: hula hoop, frisbee, Barbie, penne Bic, carte di credito, banchi scolastici di formica, dischi in vinile, impianti hi-fi, pavimenti di linoleum tanto che il filosofo francese Roland Barthes osservò allarmato: «Il mondo intero può essere plastificato».
Fibre naturali come il cotone, la lana e la seta venivano sempre più rimpiazzate da nylon o poliestere e persino la bandiera piantata sulla Luna dagli astronauti per rappresentare la più alta conquista dell'umanità era stata realizzata i nylon. E così i materiali sintetici cambiarono la vita quotidiana di noi tutti ma anche l'assetto della geopolitica. La seconda grande intuizione americana è stata che per dominare i territori non erano necessarie le guerre: attraverso l'imposizione dell'inglese, invece, non esistevano più frontiere. Stessa idea che aveva anche Winston Churchill che, durante una conferenza del 1943 all'Università di Harvard annunciò che «Gli imperi del futuro saranno imperi della mente». Lezione che fecero propria scrittori come Ezra Pound, Lawrence Durrell, George Orwell e H.G. Wells che predisse come la lingua inglese si sarebbe «propagata come un incendio e che nel 2020 quasi nessuno al mondo sarebbe stata incapace di comprenderla». D'altra parte le migliaia e migliaia di studenti che arrivavano negli Stati Uniti per studiare qualsiasi materia la studiavano in inglese. Anche se «il primo blocco a passare all'inglese è stato quello dei controllori del traffico aereo»: serviva una lingua universale per farsi comprendere, come dall'altra parte occorreva agli scienziati per pubblicare studi comprensibili a tutti. L'impero nascosto ( Einaudi, traduzione di Chiara Veltri e Paolo Bassotti, pagg.
560, euro 34) non è un saggio contro gli Stati Uniti, al contrario: ci fa comprendere come gli Usa abbiano compreso, prima di tutti, come il nostro immaginario collettivo non avrebbe avuto bisogno di frontiere o di colonie, ma semplicemente di idee tanto potenti da conquistare anche il nostro presente.
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