Sessant'anni di storia della Rai sono anche sessant'anni di storia della politica. La «questione televisiva» ha prodotto quattro quesiti referendari, diciotto sentenze della Corte costituzionale e un paio di crisi di governo. Per limitarsi agli ultimi decenni...
La contiguità tra Viale Mazzini e i Palazzi romani è cosa antica e risaputa. Ciclicamente, qualcuno, giornalista o politico, si indigna, alza la voce e poi, come tutti coloro che lo hanno preceduto, getta la spugna. La Rai, come i ministeri, come l'Italia intera, sembra irriformabile. Mai come oggi l'azienda soffre una crisi di legittimazione. Che faccia «servizio pubblico» è ormai da dimostrare volta per volta, programma per programma. Basta ricordare le polemiche degli ultimi mesi. Nell'informazione, resistono alcune «sacche» dovute alla lottizzazione. A esempio, su Raitre sembrerebbe strano trovare un po' di obiettività. In mezz'ora a Ballarò, Report e il Tg3: tutte le principali trasmissioni di approfondimento, oltre al telegiornale, sono finite nel mirino perché sbilanciate a sinistra. L'intrattenimento, incluso quello sciocco, poteva forse essere giustificato quando l'offerta televisiva era ridotta. Oggi, con decine di canali dedicati a ogni sfumatura del trash, allo spettatore tocca versare l'obolo per (non) sorbirsi a pagamento ciò che si vede gratis altrove. E giù discussioni sui reality e i charity show di Raiuno e Raidue. La Rai ha poi una natura ibrida. Gode di un tributo obbligatorio (il canone) ma sta anche sul mercato come la concorrenza. Risultato. Date queste condizioni, sono inevitabili le cicliche proteste per gli stipendi d'oro di alcune star, da Fabio Fazio in giù. In Parlamento, infine, si è affermato il Movimento 5 Stelle, in costante attrito con la Rai. Proprio il grillino Roberto Fico presiede la Commissione di vigilanza.
La televisione pubblica, oltre a essere lo specchio del potere, talvolta capace di coglierne in anticipo le oscillazioni, è stata anche instrumentum regni. La storia è lì a dimostrarlo. Fin dal 1954, la Rai svolge una funzione pedagogica in linea col progetto culturale democristiano. Nel 1958 l'egemonia Dc scatena le prime forti recriminazioni. Il Pci insorge contro la nomina in Cda di Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti.
Nel 1961 la nomina a direttore generale di Ettore Bernabei apre una nuova fase, che anticipa il centrosinistra di Moro e Fanfani. L'informazione diventa cruciale, Biagi dirige il Tg, i volti dei leader appaiono nelle prime tribune politiche. (Biagi però si dimette quasi subito, perché oggetto di pressioni per lui insopportabili). Dopo l'ingresso dei socialisti al governo, l'organico si gonfia, le poltrone si moltiplicano. Alberto Ronchey inventa il termine «lottizzazione», interpretazione degenerata del pluralismo. Ci vuole il compromesso storico perché il Pci, nel 1977, partecipi al suo primo giro di nomine. Nel 1986, Walter Veltroni, responsabile informazione di Botteghe Oscure, indica i primi direttori targati Pci: a Raitre (nata nel 1979) va Angelo Guglielmi, al Tg3 Sandro Curzi.
Nel frattempo, è esploso il fenomeno delle televisioni private. Il monopolio Rai traballa. Berlusconi, tra il 1978 e il 1984, mette in piedi il suo impero televisivo. Comincia una guerra destinata a durare fino ai nostri giorni. La prima fase si combatte a colpi di oscuramenti e riaccensioni per decreto. I protagonisti sono i democristiani, Berlinguer, Craxi. Le regole d'ingaggio, però, stanno per cambiare. Lo scontro non sarà (o non solo) per influenzare gli equilibri in Rai. Il proprietario delle tv private scende in campo e spiazza tutti.
L'inedito mix tra media e politica, l'«anomalia italiana», sarebbe il vero motivo del successo di Forza Italia e del suo fondatore. L'anomalia è reale, così come il conflitto d'interessi, ma davverò è così grande il potere della televisione? In realtà, il Berlusconi politico ha vinto tanto ma ha anche perso. Egli però è tuttora un maiuscolo interprete di un mondo che non aveva rappresentanza in televisione come in politica. È il mondo dei piccoli imprenditori, delle professioni, della moda, del design, della pubblicità, del made in italy. Un blocco sociale che, negli anni Ottanta, ha dato vita al boom economico, modernizzato il Paese, chiesto libero accesso ai mezzi di comunicazione.
Salvo scontrarsi col capitalismo bloccato dei salotti buoni e con la dominante mentalità statalista. Quest'ultima, in campo televisivo, predica ancora il pluralismo all'interno del monopolio e non attraverso il mercato. I risultati li abbiamo sotto gli occhi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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