Luzi, chi lo legge più? (ma tutti scrivono poesie)

In vita era studiato, citato, venerato. Ora sembra scomparso. Eppure è un vertice del '900 europeo

Luzi, chi lo legge più? (ma tutti scrivono poesie)

Nel 1964, a Taormina, era dicembre, incontrò Anna Achmatova. La zarina della poesia sarebbe morta poco più di un anno dopo. Era stata amata e disegnata da Amedeo Modigliani, era stata l'amica di Boris Pasternak, la confidente di Osip Mandel'stam, l'idolo di Iosif Brodskij; il regime sovietico le aveva ammazzato un marito e imprigionato un figlio. Eppure lei era lì. «La sua figura matronale vestita di nero era assorta in sé, immobile, ma non assente. Quel mutismo trascendeva la sua persona e arrivava come il grido pietrificato di una storia tragica».

Se Anna Achmatova raffigurava il cuore del secolo, Mario Luzi (1914-2005), composto, arcangelico, certo, autorevole, metafisico, ne era la postfazione, l'appendice, il sunto, forse. Aveva cinquant'anni, Luzi, allora, e lo premiavano, insieme alla Achmatova, per Nel magma, la raccolta stampata da Scheiwiller. La più bella, la più ardita dico io , quella in cui «giunge a compimento l'adesione consapevole a Dante (e proprio al Dante della Commedia)», scrive Daniele Piccini nella monografia Luzi (Salerno, pagg. 364).

Luzi di Daniele Piccini

Erano anni di libri diversamente decisivi, quelli, gli anni de Gli strumenti umani di Vittorio Sereni (1965), di Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni (1965), delle variazione belliche di Amelia Rosselli (1964), di Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini (1964) e Lezioni di fisica di Elio Pagliarani (1964), delle IX Ecloghe di Zanzotto (1962). Ed è un libro meraviglioso, quello di Luzi, teatrale e integerrimo, dai versi simili a un falò («Perché sono nato nell'umano/ mormora lui vedendola mentire/ e non perdere nulla della sua grazia/ di movenze felpate e caute»), che sborda verso altri libri importanti, Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia. «Ci fu un raffreddamento quando uscì Nel magma. Perché lei questo trapasso un po' drastico non lo capì, si sentì sorpresa, lo prese un po' come un tradimento», ricordò Luzi, parlando di sé, nel ricordo di Cristina Campo. L'aveva conosciuta nel 1947, lei aveva 24 anni, «Trovai Cristina nel giardino. Si fece prepotentemente avanti», era legata a Leone Traverso. Lei s'innamorò di lui, lui, con grazia, la ignorò. La Campo trasfuse la delusione in versi, in una delle sue rare poesie, forse la più nota: «Moriremo lontani. Sarà molto/ se poserò la guancia nel tuo palmo/ a Capodanno; se nel mio la traccia/ contemplerai di un'altra migrazione». La poesia uscì su Paragone, nel 1955. L'anno in cui conosce la Campo, Luzi pubblica con Vallecchi Quaderno gotico, conosce Dylan Thomas, a Firenze, e di quel Dioniso parla con ebbra invidia: «Lo si trovava imbambolato dietro una piccola selva di bottiglie vuote e non si capiva se dietro i suoi occhi grandi dall'azzurro sfatto in una luce lontana e bruciata si movesse un pensiero ineffabile o vi fosse solo l'ebetudine». A quell'epoca, Luzi scopriva i Quartets di Thomas S. Eliot; aveva votato per la Repubblica.

Credo che Mario Luzi paghi un caino contrappasso. Quando era in vita e ha vissuto a lungo, è morto novantenne, quindici anni fa era l'emblema della poesia possibile, l'erede di Ungaretti e di Montale, il nipote di Dante. Dal 1979 Garzanti ha preso a raccogliere Tutte le poesie di Luzi; nel 1998 i «Meridiani» Mondadori privilegio raro concesso ai vivi, allora ne hanno pubblicato L'opera poetica (da allora, mai più rinnovata). Il poeta che ha cantato come «muore ignominiosamente la repubblica», dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è stato onorato con l'elezione di Senatore a vita, nel 2004. Al Nobel gli fu preferito ignominiosamente Dario Fo, ma nel 1997 fu il poeta a tenere un'orazione Per il bicentenario del tricolore («Inventata dalla appassionata genialità dei poeti e dei filosofi l'Italia non è mai stata un paese che riposasse sulle proprie ragioni acquisite, ma è sempre stata vera e indubitabile nella tensione verso un sé da raggiungere; è stata una perpetua utopia oppure non è stata niente»).

Nel 1974, su invito di Indro Montanelli e di Guido Piovene, comincerà a scrivere su il Giornale; nel '96 sceglie di schierarsi con l'Ulivo. «Ascolto Mario Luzi/ e mi addentro in un ordine/ contrario alla miseria tenebrosa», cantava per lui Álvaro Mutis. Ma oggi chi lo ascolta Luzi, chi lo legge? «L'annuncio luziano costituisce per molti aspetti la più grande eredità poetica che il Secondo Novecento lascia alle generazioni dell'età globalizzata», ribadisce Giuliano Ladolfi nel suo studio Semi a dimora a lungo inoperosi. Magistero poetico di Mario Luzi (Ladolfi Editore, pagg. 302, euro 20). Poeta geniale più che memorabile nel senso che è improbabile mandarlo a memoria , specie di aquila di vetro, Luzi, al netto degli aerei ricordi, dei libri postumi, degli elogi pubblici, è relegato nella riserva dei fossili lirici.

Chi lo cita, chi stampa i suoi libri, dove sono le sue poesie, in formato economico, in antologie maneggiabili, chi lo scova in libreria? La poesia italiana, ora come ora, pare una specie di «liberi tutti»: i grandi vecchi

continuano a garrire perché ogni lasciata è persa, i più giovani si leggono tra loro, laccati, in cerca di fama, manco l'editoria fosse una specie di X Factor. Ma la poesia va avanti, fuoco subacqueo. Nonostante i poeti.

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