"Mi addentro nei segreti di quel Bosco nero che ispira ogni artista"

Il romanziere ambienta una storia (dura) di formazione nelle Dolomiti degli anni '50

"Mi addentro nei segreti di quel Bosco nero che ispira ogni artista"

Le sue lezioni all'Università di Padova hanno titoli come «Wilderness nella letteratura americana», perché il paesaggio letterario di Matteo Righetto, patavino, classe 1972, è preciso e insieme sconfinato, parte dalle terre del Nordest come nel suo esordio (Savana padana, Tea) o dagli spaccapietre delle Dolomiti (La pelle dell'orso, Guanda) e arriva ai confini dell'epica della sopravvivenza, come nella trilogia L'anima della frontiera (Mondadori), che dovrebbe presto diventare una serie tv. Il suo ultimo romanzo, La stanza delle mele (Feltrinelli, pagg. 320, euro 18) dimostra però che nel suo cuore c'è la montagna (e infatti l'ha scelta per viverci) e che la sua ecologia narrativa è in cerca di conflitto e purezza che per paesi e uomini delle cime hanno significato spezzarsi o redimersi. Il romanzo, con una vena noir che affonda le radici nel Novecento delle Dolomiti bellunesi, narra dell'orfano Giacomo Nef, cresciuto dal nonno paterno sulle pendici del Col di Lana e profuma di cirmolo, latte appena munto e mele. Ma ogni odore sa anche come marcire al cospetto dei segreti e delle tragedie che generano, custodite da una memoria collettiva che reclama la sua onnipotenza sul singolo.

La storia è ambientata nel 1954. Come mai?

«È un anno sufficientemente lontano dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma non così lontano da consentire di dimenticare tutto, compresi i postumi legati all'Italia mussoliniana che ha tripartito la regione. Un periodo adatto a raccontare paure e angosce che la guerra aveva lasciato, pur vivendo in tempo di pace».

Il modello educativo del nonno di Nef è quello scorretto del '900: obbedienza, spirito di sacrificio, timor di Dio e botte.

«Un modello arcaico, tipico della realtà di montagna rurale molto dura e austera, con equilibri sociali ben definiti e cristallizzati, in cui il parroco è la persona più autorevole ma anche la più autoritaria. Mi piaceva che il ragazzino orfano si collocasse con la sua infanzia in un ambiente così caravaggesco e avesse a che fare con una visione terrificante, che lo accompagnasse per il resto della sua vita».

La visione di un impiccato trovato nel «Bosch Negher, tra Daghè e il castello di Andraz, dopo il Triòl dei Mòrc».

«Fermo restando che Giacomo non sa se quella visione è vera o falsa, non sa perché lo ha visto e dunque vive il tutto come un senso di colpa, tanto che le disgrazie che seguiranno saranno per lui parte di quel nero che deve portarsi dentro, il bosco nero di ognuno di noi».

Però tutta la comunità sembra contro di lui, seriamente. Anche se è solo un ragazzino.

«Non perché non vogliano credere alla sua versione. Ma perché non deve permettersi: un sassolino nuovo porta frane. Porta il passato e la storia di Col di Lana ancora verso la Prima guerra mondiale e poi la Seconda: nel Bosch Negher tutti i montanari hanno qualcosa da nascondere. Tradimenti. Passioni. Vendette».

La stanza delle mele è un luogo magico: ha il profumo della fiaba, orchi compresi.

«È la stanza delle punizioni, che offre chiaroscuri verso il futuro legato al profumo delle mele, ma per Giacomo è il luogo del castigo, dove viene bastonato dal nonno e chiuso dentro la notte. Ma proprio lì dentro nasce e si sviluppa il suo talento artistico».

Perché questo romanzo è anche una narrazione su come l'arte diventa parte della vita di uomo e forse della sua salvezza.

«Racconto la formazione di un artista che a causa di una esperienza infantile è diventato grandissimo: ha imparato tante cose e ha capito che è meglio non impararle. Giacomo capisce che deve scolpire il legno della sua terra perché a undici anni ha una visione. Grazie al turbamento che ne deriva, sarà la matrice della sua cifra artistica. Ogni artista ha un bosco nero che influenza tutta la sua opera e rimane un segreto».

Quale cultura della montagna volevi restituire?

«Frequento quei posti da tanto e da qualche anno ci vivo: per me la montagna è epica e bellezza che mi fanno sentire vivo, ma è anche lirica del pensiero intimo, che mi fa capire chi sono. La cultura del posto mi offre una formazione permanente. Della guerra tutto si sa e tutto si è detto: tra le mie fonti l'Istituto culturale ladino di Colle Santa Lucia, ma anche le tante persone con cui ho parlato. Queste montagne hanno visto nei decenni una emigrazione pazzesca, qui è pieno di borghi abbandonati. Il che ha generato due tipi di montanari emigrati: il primo è quello che ha nostalgia, il secondo non ha più voluto tornare a casa. A me affascinavano questi secondi: quando li ho conosciuti, ho scoperto le brutte esperienze che han fatto da bambini, gli orrori. Un uomo ormai vecchissimo che abita a Bressanone mi ha detto: Quando è morto mio padre per me è stata una festa. Ho cercato di descrivere questa cupezza. È una storia bella, ma per bello si intende anche l'aspetto più oscuro della vita rurale: 1700 metri, anni Cinquanta, Dolomiti meno turistiche».

Ci sono tante parole in ladino, nel romanzo, integrate, poetiche. Manca un glossario.

«Non mi preoccupa più di tanto che non si capisca, non inseguo il lettore con la didascalia: se ce la fai, la parola arriva.

Per me un libro così è davvero un patrimonio: quello che sto provando a fare con il ladino è salvare una lingua. Salvare una cultura. Attraversare il sentimento sociale di un'epoca. E, proprio così, intercettare un immaginario amplissimo».

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