Se essere liberali significa avere compiuta consapevolezza che il liberalismo non è una teorica dei diritti per la quale più diritti si hanno più si è liberi ma una teorica delle libertà, Giovanni Sartori fu un liberale a 360 gradi. Nella sua vastissima produzione scientifica i saggi dedicati alla democrazia (da Democrazia e definizioni del 1957 a The Theory of Democracy Revisited di vent'anni dopo, da Democrazia: cosa è del 1993 all'agile La democrazia in trenta lezioni del 2008) occupano un posto centrale.
Oggi la retorica liberaldemocratica sembra esser divenuta moneta corrente nel discorso politico ma nel 1957, quando uscì appunto, Democrazia e definizioni non erano molti i filosofi e gli scienziati politici che scrivevano libri sulla «società aperta» e insegnavano alle nuove generazioni che le repubbliche immaginarie sognate dai totalitari di destra e di sinistra erano, nel migliore dei casi, le vie lastricate di buone intenzioni che menano agli Inferi.
A distinguere Sartori da quei pochi fu l'impegno ad affrontare, con rigore analitico e metodologico, il problema della definizione, convinto che fosse «un grave errore sottovalutare l'aspetto terminologico della lotta politica, dal momento che essa si svolge appunto come una guerra di parole». Per democrazia, Sartori intendeva la democrazia liberale, ovvero «una società libera, non oppressa da un potere politico discrezionale e incontrollato, né dominata da un'oligarchia chiusa e ristretta. In tanto c'è democrazia, in quanto si abbia una società aperta, nella quale il rapporto tra governanti e governati è inteso nel senso che lo Stato è al servizio dei cittadini e non i cittadini dello Stato, che il governo esiste per il popolo e non viceversa». In anni in cui i giovani erano affascinati dalla «giustizia sociale» rivendicata dal più forte partito comunista dell'Occidente e fortemente apprezzata dai cattolici memori delle «dottrine sociali della Chiesa» e dagli eredi azionisti della democrazia risorgimentale aliberale, non poteva bastare certo una concezione realistica della democrazia ricalcata su quella di J. A. Schumpeter - «il metodo democratico è quell'accorgimento istituzionale per arrivare a decisioni politiche, nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare». Anche se più di Schumpeter Sartori si mostrava attento e preoccupato dei «valori». Quello democratico, anche per lui, era un «mercato», caratterizzato dalla competizione regolata e dall'offerta di programmi di governo in cambio di voti ma il «sistema» non si reggeva tutto sull'utilità. «Una democrazia dimentica dei valori rischia di valere tanto poco che non ci importa più di perderla».
Sartori aveva studiato a fondo i classici del liberalismo, sia anglosassone J. Locke, J. Bryce, A.V. Dicey, J. S. Mill, J. Madison sia francese Montesquieu, B. Constant, A. de Tocqueville e ne aveva interiorizzato il realismo e l'insofferenza per ogni astrattezza. La sua ammirazione per le democrazie anglosassoni rimase in lui inalterata: «Le democrazie anglosassoni sono un prodotto storico perché tipicamente elaborate e pazientemente costruite da una forma mentis refrattaria ad ogni radicalismo razionalistico, che ama procedere per addizione, per sedimentazione, per accumulo: cioè a dire da una matrice culturale che sembra fatta apposta per sintonizzarsi con la fabbrica del tempo». Ne deriva una democrazia imperniata «sull'esistenza di partiti al plurale» che vede nella tutela delle minoranze il problema cruciale di una convivenza civile che si traduce in «un sistema pluripartitico nel quale governa una maggioranza nel rispetto dei diritti delle minoranze». Sartori contrappose sempre all'illuminismo, che sull'identità fonda la «scienza della società» e finisce nella giustificazione teorica dell'autocrazia, l'empirismo mirante alla «costruzione di un ordine politico fondato sulla diversità».
Soprattutto in questi ultimi tempi, Sartori è stato spesso avvicinato a Norberto Bobbio, l'altro «grande vecchio» degli studi politici in Italia. In realtà, tra i due pensatori ci sono differenze incolmabili. Quando in uno scritto del 1988 sull'amico-collega, Bobbio scrive di essere più sartoriano di lui perché trova nella democrazia degli antichi «tutti i tratti principali di quella forma di governo che oggi chiamiamo democrazia liberale» non tiene conto della tesi fondamentale di Democrazia e definizioni che il mondo greco non ha mai «conosciuto quel concetto di libertà del singolo che si può riassumere nella formula del rispetto dell'individuo-persona. Il rispetto dell'individuo-persona come tale è infatti una acquisizione successiva, di origine cristiana e di elaborazione giusnaturalistica e liberale». Un brano che sembra un'anticipazione del recente saggio di Larry Siedentop, L'invenzione dell'individuo. Le origini del liberalismo occidentale. Sartori, inoltre, non avrebbe mai condiviso l'amara constatazione di Bobbio che la democrazia, nella società occidentale, si arresta alla soglia della fabbrica; né avrebbe posto libertà ed eguaglianza sullo stesso piano. Per lui «L'eguaglianza non può essere che un sistema di reciprocità e di compensazione tra diseguaglianze. La formula della liberaldemocrazia è l'eguaglianza attraverso la libertà, mediante la libertà, e non la libertà a mezzo dell'eguaglianza. Logicamente l'inversione è plausibile, ma empiricamente no». Per Sartori «La prima libertà, quella che sostiene la trafila delle altre libertà-uguaglianze, è la libertà politica. E questa non ha niente di formale». Passare dalla «libertà da» la libertà come non impedimento alla «libertà di» la libertà come potere e diritti per lui non aveva senso.
«La libertà al positivo si può adoperare in tutte le direzioni e per qualsiasi scopo; è solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non-impedimento, che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.