Fra le eredità infelici lasciateci da Napoleone Bonaparte e giunte, più o meno rabberciate, fino a noi, il bonapartismo è quella che ha avuto maggior fortuna. All'apparenza è qualcosa di molto simile al pronunciamento, golpe o colpo di Stato che sia, ovvero la presa di possesso militare del terreno riservato alla politica. Si tratta di un'invasione di campo che, naturalmente, non ha aspettato l'arrivo del piccolo còrso per manifestarsi nella storia, ma l'età moderna, che nasce con la Rivoluzione francese e che quindi di Napoleone è coetanea, inserisce nella sua dinamica elementi che il mondo antico ignorava: la mobilitazione popolare, l'esercito di massa, l'idea se non la pratica del suffragio universale e quindi il consenso popolare e l'eguaglianza civile, in pratica una concezione dello Stato più articolata e più difficile da manovrare di quanto non fossero le polis classiche e, più tardi, gli assolutismi di stampo monarchico.
Rispetto alle prime, il bonapartismo è in fondo la versione modernizzata del cesarismo, elemento di fatto assente nei secondi dove il fattore dinastico, coniugato nelle sue forme più varie, è la norma intorno alla quale si stabilisce il ricorso all'uso della forza: perché ci sia una diversa legittimità è necessario potersi rifare a una legittimità che comunque la incarni e la giustifichi
In quanto cesarismo modernizzato, il bonapartismo ha il pregio di fare tabula rasa di tutto ciò che nei secoli in cui si erano venuti costruendo gli Stati nazionali aveva finito per sedimentarsi: la congiura e il tradimento, l'avvelenamento e il colpo di pugnale, l'agguato e l'assassinio puro e semplice Qui è il decisionismo a essere in primo piano, ovvero la consapevolezza di un progetto politico alternativo a quello vigente, considerato iniquo e/o incapace, e che per imporsi ha bisogno di un'azione esemplare, tanto più tale quanto più rapida e, come dire, al passo con i tempi: è nell'aria, la si aspetta e la si chiede, va colta. Da quanto appena detto si comprende come il bonapartismo non sia la prevalenza del militare sul politico, ma l'utilizzo mirato che il politico fa del militare, il filo della spada che recide il nodo gordiano che paralizza l'azione politica, ma che poi va riposta nel fodero.
Si comprende altresì come il bonapartismo senza Bonaparte sai un frutto andato a male, perché inverte i termini del problema, confonde l'azione con il fine, pensa che governare voglia dire militarizzare. Nella storia francese moderna e contemporanea, che ha visto i disastri del bonapartismo di Luigi Filippo, di Napoleone III, del generale Boulanger, c'è stato un solo esempio di bonapartismo andato a buon fine ed è stato quello del generale de Gaulle nella sua variante, appunto, gaullista.
Sparse per il mondo, fra l' Europa orientale, il Medio Oriente, l'America latina e l'Africa, le varianti nefaste del bonapartismo si contano invece a piene mani Per finirla nel modo più semplice, prima e più che essere un generale, Napoleone fu un condottiero, nel senso classico del termine, il che ci rimanda anche a quanto di romanità dimenticata ci fosse nell'età delle rivoluzioni, ovvero a quanto di antico ci fosse nel progresso
Tutte queste considerazioni si sono venute formando leggendo un bel libro di Antonino De Francesco, Il naufrago e il dominatore (Neri Pozza, 236 pagine, 18 euro), appena uscito nella collana Il tempo storico curata da Luigi Vercesi. Nel bicentenario della morte di Napoleone, l'interesse intorno a questa figura continua a essere impressionante, anche se raramente di prima sfera. Il saggio di De Francesco rappresenta però una felice eccezione che ben si coglie già dal sottotitolo del volume: Vita politica di Napoleone Bonaparte. Non siamo cioè di fronte all'ennesima rivisitazione, aneddotica, memorialistica, specialistico-militare, del «più potente soffio di vita che animò l'argilla umana», secondo la sfolgorante immagine di Chateaubriand, ma di un'analisi del suo orizzonte politico-ideologico, di ciò insomma che ne precede e forma il successivo cammino di ufficiale e di rivoluzionario, di primo console e di imperatore, di esule e prigioniero infine.
Un elemento su cui si è poco riflettuto, e che De Francesco mette giustamente in rilievo, è come al mestiere delle armi Napoleone si sia in fondo arreso suo malgrado. Nel 1793, quando deve prendere amaramente atto che il suo tentativo di ritagliarsi un ruolo di protagonista nell'indipendenza della Corsica è fallito, ha 24 anni, non pochi per un'epoca che brucia a grandi passi la giovinezza, ed è in netto ritardo rispetto «a una Francia ormai in guerra contro tutte le principali potenze d'Europa (e proprio per questo alla disperata ricerca di ufficiali da compensare con facili promozioni». C'è di più. «Le poche prove militari cui era andato incontro erano finite molto male»: il fallito sbarco in Sardegna, la fallita occupazione di AjaccioNé va dimenticato che la sua insistenza a restare in Corsica gli è valsa persino una radiazione dall'esercito Per quanto uscito dall'accademia militare, per quanto già ufficiale a 16 anni «e quindici giorni», non c'è nulla in lui dell'entusiasmo Ancien Régime di un Lauzun, «il giorno sotto il fuoco nemico e la sera a cena con la mia amante!», o dell'entusiasmo rivoluzionario di un Hoche, da sergente a generale in tre anni Prima insomma che nel dicembre del 1793 l'assedio di Tolone ne riveli il genio tattico, Napoleone è un agitatore politico che ha conosciuto l'insuccesso e uno scrittore che oscilla fra il pamphlet, Le souper de Beaucaire in cui difende l'unità repubblicana, costi quel costi, e il romanzo sentimentale, Clisson et Eugénie Questo, di passata, spiega anche l'attrazione che Napoleone eserciterà sempre sui letterati suoi contemporanei, da Chateaubriand a Stendhal, a Constant, e più in generale sul mondo intellettuale dell'intero Ottocento e ancora del Novecento. Era un'attrazione legata a quella che un italiano come Giovanni Ansaldo definirà «la condizione dei centauri», metà civili e metà militari, metà scrittori e metà politici, metà artisti e metà legislatori. Era uno di loro Napoleone, era quello che loro avrebbero voluto essere
Dietro questi ritardi e queste oscillazioni, De Francesco coglie il nucleo forte di una giovinezza spesa sulle pagine di Plutarco e ci rimanda a quella immagine del condottiero da noi prima usata: «Il giovane Bonaparte non era e non si considerava soltanto un soldato. Egli non vedeva il suo destino realizzarsi esclusivamente sui campi di battaglia, perché sì, la guerra lo entusiasmava e le tecniche militari lo affascinavano, ma non si sentiva un generale, quanto un condottiero simile ai grandi dell'antichità, in cui pensiero e azione sempre apparivano funzionali al supremo ideale politico della libertà».
Questo sentimento e/o immedesimazione della e nella classicità permette di cogliere in filigrana un'altra costante della ideologia, chiamiamola così, di Napoleone. Il continuo guerreggiare e insieme l'incessante tentativo di costruire una sorta di blocco continentale di più Stati ruotanti intorno a un unico sole francese va spogliato dalla pura e semplice coazione a ripetere data dalla vittoria, così come dal familismo e persino dalla politica delle alleanze dinastico-matrimoniali, vera e propria eresia rispetto all'eredità rivoluzionaria.
Ciò che ne è alla base, scrive De Francesco, altro non è che l'idea della «Repubblica come una nuova Roma, chiamata a misurarsi con un'Inghilterra rappresentata quale una novella Cartagine, che nell'antichità era stata signora del mare ed era stata vinta solo quando aveva perduto il controllo delle coste del Mediterraneo». Nella testa di Napoleone, l'Inghilterra, così come del resto la Russia erano estranee a «una compagine europea omogenea». Si trattava, se si vuole, «di una guerra di civiltà. Su un fronte era schierato chi aveva meglio interpretato e poi addirittura rimodellato il caos rigeneratore della rivoluzione. Sull'altro chi aveva tentato di trarre profitto dalle disgrazie accompagnantesi agli sviluppi della libertà per continuare un dominio che costringeva alla subalternità economica le altre nazioni. Da un lato gli uomini liberi ed eguali (o quasi); dall'altro uomini pur sempre liberi, ma che si arricchivano in modo indegno sfruttando popolazioni schiave ed ottuse».
Letta così, la parabola di Napoleone riconduce a temi sempre attuali, per esempio le radici profonde dell'identità europea, e, vista nella sua peculiarità individuale, a quegli elementi carismatici che hanno a che fare con il rapporto diretto con il proprio popolo.
Sotto questo profilo, la fuga improvvisa dall'Elba è esemplare: il ritorno sulla scena non più dell'imperatore, ma del primo console, la Repubblica e non l'Impero, la nazione e non la fazione. Perse, ma ancora una volta i francesi gli erano andati dietro.
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