Quarant'anni fa, nel 1981, moriva a Roma uno degli artisti più importanti dell'ultima incarnazione della «scuola romana», Giovanni Stradone, il cui nome resta legato al cosiddetto «espressionismo tonale e metafisico». S'era appena chiusa (o stava per chiudersi, non ricordo bene) una sua mostra presso una nota galleria romana dov'erano esposti una ventina di disegni realizzati soprattutto attorno agli anni Quaranta per riviste culturali, come per esempio Primato di Giuseppe Bottai, trasformati per l'occasione in splendidi monotipi. I temi erano apparentemente, leggeri (il circo, i pagliacci, le danze, le maschere), ma pure in qualche caso evocativi e allusivi (per esempio la «fucilazione») dell'atmosfera angosciosa della guerra.
Si trattava di una mostra minore ma significativa dal punto di vista documentario e storico. E anche importante perché, proprio la sera dell'inaugurazione, l'ormai settantenne artista aveva rivisto un nome mitico del mondo artistico romano, il gallerista Bruno Sargentini, cui era stato legato da una quarantennale amicizia. Da sempre estimatore della pittura di Stradone la definiva «tutta nervi e sangue» questi aveva interrotto il sodalizio con lui per dissapori caratteriali. Quella sera aveva deciso di riprenderlo avviando una stagione di rilancio di Stradone con mostre antologiche e la pubblicazione del catalogo generale delle opere. La morte improvvisa dell'artista e dell'amico ritrovato finì per ridimensionare il progetto.
Per quanto nato in provincia di Napoli, a Nola, Giovanni Stradone era a tutti gli effetti romano d'adozione perché nella capitale aveva vissuto fin dall'infanzia. A Roma, nella seconda metà degli anni Venti e all'inizio del decennio successivo c'era, dal punto di vista artistico, un grandissimo fermento che rifletteva e recepiva quanto avveniva nel paese. Si erano succedute le avanguardie storiche, la stagione di Valori Plastici dei coniugi Broglio, l'incontro tra il futurismo di Carlo Carrà e la metafisica, il recupero della grande pittura italiana dei secoli d'oro postulato dal Novecento e via dicendo. Il tutto mentre vi soffiava ancora qualche refolo del venticello dell'accademismo di un Ettore Tito e di un Aristide Sartorio, mentre Ugo Ojetti pontificava nella critica d'arte e nella celebre terza saletta del Caffè Aragno si discuteva di estetica, di letteratura e, soprattutto, di ritorno all'ordine.
Ancora adolescente, Stradone aveva frequentato lo studio di Ferruccio Ferrazzi, artista di fama internazionale, ma presto aveva subito il fascino della nascente «scuola romana» legata ai nomi di Scipione (Gino Bonichi) e di Mario Mafai, forse anche perché egli, con il suo carattere ribelle e irruento, in questa «scuola» vedeva un movimento di opposizione alla poetica del Novecento accusata di conservatorismo e di retorica. In effetti, Scipione e Mafai, pur con le loro profonde differenze, avevano dato vita a un filone pittorico espressionistico baroccheggiante e carico di colori caldi e accesi, nel caso di Scipione, più tonale e intimista nel caso di Mafai che confliggeva con il gusto novecentista di recupero e rilettura del passato.
Muovendosi in questo ambiente, ma con una originalità di fondo, Stradone si affermò, già nell'ultimo scorcio del decennio, come un artista che portava avanti una poetica nuova che trovava la sua più conosciuta espressione nelle tele dedicate ai notturni romani, in particolare alle immagini del Colosseo, dei Fori, di via Salaria, di talune chiese storiche e di talune periferie. Si trattava di una pittura pastosa e visionaria nella quale erano rintracciabili echi dell'espressionismo di Scipione, del neo-impressionismo di Mafai, del tonalismo di Morandi: una pittura che stemperava il figurativismo in un contesto allusivamente informale e lirico.
La definizione più convincente della pittura di Stradone la dette Giorgio De Chirico in una bella monografia. Ne parlò come di un «neo-espressionismo tonale e metafisico» che era una «genuina proiezione di un sentimento tormentato dell'animo umano che crea quasi affannosamente il silenzio e la solitudine per reagire alla dissoluzione dei tempi». Di questo giudizio Stradone fu sempre orgoglioso e non perdeva occasione per ricordarlo agli amici e a chi lo frequentava. Una volta, in uno dei nostri incontri, mi disse: «Sono un espressionista metafisico. Per questo De Chirico mi dedicò il suo unico saggio impegnato su un pittore contemporaneo. Aveva visto in me l'altra parte di se stesso».
Era consapevole di essere un protagonista della scena artistica ma non voleva creare scuole. Dopo avermi ricordato che fra il 1940 e il 1947 aveva dato «il più importante e nuovo contributo all'arte del dopoguerra» aggiunse con tono e sorriso ironico: «la funzione di ogni gruppo è di sciogliersi, ma la grande personalità continua il proprio cammino mentre gli altri prendono strade laterali o si perdono per via. I veri pittori sono degli isolati perché non hanno bisogno di nessuno per creare, né hanno bisogno di lanciare manifesti». Fondamentale, per lui, era l'ispirazione, che non si acquisisce con l'adesione ai manifesti: «Compiango quei pittori che dicono di non essere mai ispirati. Non occorre che lo dicano: si vede da quello che fanno. Per intere giornate portano a spasso le loro parannanze».
Aveva il gusto della battuta, della polemica, della rissa intellettuale, Stradone. All'inizio degli anni cinquanta , non esitò a farsi promotore insieme a un gruppo di artisti fra i quali c'erano Domenico Purificato, Franco Miele, Remo Brindisi, Giovanni Omiccioli, Orfeo Tamburi di una bella e ormai introvabile rivistina mensile dal titolo Figura, portabandiera di una battaglia contro l'astrattismo in difesa di quella che egli volle chiamare la «libera figuratività». Questa «figuratività», naturalmente, era l'esito di un percorso artistico approdato al «neo-espressionismo metafisico e tonale» passando attraverso Morandi, Scipione e Mafai: non la figuratività retorica e di scuola ma quella di una pittura nervosa e allusiva, di stati d'animo e di paesaggi e figure accennati in un gioco di luci e di ombre.
Sulla rivista Figura, lo ricordo per inciso, apparvero molti disegni di Stradone dal tratto rapido ed essenziale come quelli con i quali egli aveva illustrato un altro mensile, Mercurio, creato da Alba De Cespedes sul
finire del 1944 come palestra per la rinascita intellettuale e politica della nuova Italia. E ciò a dimostrazione non soltanto del suo virtuosismo artistico ma anche della sua sensibilità civile celata dai suoi modi bruschi.
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