Se n'è andata Franca Valeri, con lo stesso spirito indomabile di inizio carriera. Certo, era diventata fragile e più minuta, l'eloquio ormai zoppicante, eppure ancora in scena. I giovani che l'hanno vista e ascoltata solo negli anni del decadimento fisico, come al Festival di Sanremo del 2014, una delle sue ultime apparizioni televisive, non potrebbero nemmeno sospettare che sia stata tra le più grandi attrici italiane del Novecento. Tutte le sue colleghe, nessuna esclusa, se abbandoneranno per un attimo lo specchio, dovranno convenirne. Una numero uno di cinema e teatro, radio e tv, ovunque abbia posato sguardo e voce. Traguardo raggiunto grazie a un umorismo sottile e raffinato, e a impagabili tocchi di (auto)ironia. Immaginate, chiedendo in anticipo perdono per il blasfemo accostamento, una Littizzetto con mezzo secolo e più d'anticipo, fatto naturalmente salvo l'incolmabile abisso di eleganza, classe e talento.
Provocatrice e antisistema lo era stata fin dall'esordio Franca Norsa, nata a Milano da una famiglia della buona società, che irruppe sul palcoscenico già con il definitivo cognome d'arte, Valeri, su imbeccata, a quanto sembra, di un'amica innamorata delle poesie di Paul Valery. Poco più che ventenne era già la vedette femminile del Teatro dei Gobbi, un trio formato anche da Alberto Bonucci e dal futuro marito, Vittorio Caprioli. Spettacoli in piena controtendenza rispetto alla tradizione, tutti giocati sulla satira, acuta, perfida e non adatta a qualsiasi platea, di quella borghesia da cui lei stessa proveniva. Lo snobismo della classi agiate era stato del resto il suo primo bersaglio già nell'adolescenza, quando inscenava per parenti e amici un teatrino amatoriale fatto di sberleffi a chi, in alto loco, se la tirava troppo. Una palestra dove la futura Signorina Snob si fece così bene le ossa, da essere presto in grado di romperle metaforicamente ai presuntuosoni di ogni ordine e grado.
Un personaggio che spunta pari pari, o quasi, anche al cinema, già all'inizio della carriera. Come nel suo terzo film, del '52, Totò a colori, dove al fianco, guarda caso, di Caprioli e Bonucci, prende a pesci in faccia il piccolo mondo degli esistenzialisti, ovvero quei tromboni senza parte e pochissima arte, che con grande sprezzo del ridicolo si proclamavano pittori e scrittori. Come dire che la voglia di scherzare sugli altrui difetti, tic e vizietti, la giovane attrice ce l'aveva nel sangue. Non meno efficace era la capacità di irridere le proprie debolezze. Mica facile incontrare una ragazza così spiritosa da dichiararsi senza alcuna paura poco attraente.
Basta guardare Il bigamo di Luciano Emmer e Il segno di Venere di Dino Risi, entrambi del '55. Nel primo la Valeri è tale Isolina Fornaciari, così ostinatamente cotta di un candido piazzista (Mastroianni), regolarmente sposato a un'altra (Giovanna Ralli), da giurare in tribunale di essere la sua vera moglie e farlo condannare per bigamia. Nel secondo è la dattilografa milanese Cesira, trasferitasi a Roma dalla sfolgorante cugina Agnese (Sophia Loren). La racchiona, abbagliata da una chiromante, s'illude che il poker di maschi che le ronzano intorno (Vallone, Sordi, De Sica e Peppino De Filippo) siano tutti innamorati di lei e non, come è ovvio, dell'irraggiungibile parente.
Sullo stesso metro Il moralista (Giorgio Bianchi, '59), in cui la Valeri incarna la vogliosa e, tanto per cambiare, bruttina Virginia, figlia del presidente dell'Organizzazione della moralità pubblica (De Sica), tampinata, per mera piaggeria, dal nuovo segretario dell'ente, Agostino Salvi (Sordi), intransigente, a parole, paladino del pudore. E soprattutto Il vedovo (ancora di Risi e sempre del '59), il suo ritratto più divertente e azzeccato, dove impersona la cinica, efficientissima e mica tanto seducente imprenditrice milanese Elvira Almiraghi, moglie per interesse (di lui) dell'inetto commendatore romano Alberto Nardi (di nuovo Sordi), che, sommerso dalle umiliazioni casalinghe, prepara l'uxoricidio perfetto. Insomma, come suggeriva quella canzone, che cosa importa a me se non son bella. Basta prenderla con spirito.
Intanto, tra un set e l'altro, anche se il meglio ormai, alla soglia dei quarant'anni, l'aveva già dato, continuava a esibirsi con successo in teatro. Cambiava la compagnia, ma non lo spartito: testi intelligenti e niente volgarità, le prime regole. Che volle e seppe rispettare anche ai tempi d'oro della radio, e più tardi in tv, da Studio Uno a La regina ed io, da Le divine a Le donne balorde, dove fece conoscere al grande pubblico il personaggio della Signorina Snob e più avanti della Signora Cecioni, una donnina di buon senso e non alto lignaggio, impegnata in lunghi, irresistibili monologhi telefonici con un'invisibile mamma di vedute piuttosto ristrette.
Una carriera lunga e sicuramente più fortunata della vita privata, che poi si arenò, per mancanza di ruoli e bisogni contingenti. Vennero allora le tristi apparizioni in pellicole dimenticabili, come La signora gioca bene a scopa? e Paulo Roberto Cotechiño, centravanti di sfondamento. Così gira la ruota, anche per una grandissima.
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