«Chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge, chi pratica il Tao ogni dì toglie, toglie ed ancor toglie fino ad arrivare al non agire». È l'appunto 48 del Tao te Ching, che viene sintetizzato con l'assunto - o il suggerimento, o l'allusione - «Obliare la sapienza». Ma attenzione al verbo «obliare», che non significa cancellare, ma nascondere, addirittura rimuovere, e quindi custodire. Far diventare la sapienza qualcosa che agisce nostro malgrado, qualcosa che sottrae a nostra insaputa: conoscenze, gesti, memoria. Fino alla non azione. E che cos'è una non azione se non un modo di vedere, di rendere la vita qualcosa di assolutamente visivo, cioè mentale? Che cos'è la non azione se non una resurrezione?
Tao 48 è anche il titolo del nuovo libro di Franco Cordelli (La nave di Teseo, pagg. 348, euro 20), che esce a sei anni di distanza dal suo precedente romanzo, Una sostanza sottile, titolo che era già un simbolo, e insieme un sintagma estratto dal Tao te Ching di Lao-Tsu, e che qui troviamo esplicitato una sola volta, nel racconto Tre orologi, «il vecchio Tao era pur sempre presente, era suo compagno, una barchetta, non di più. Ciò che si tocca senza afferrarlo, riconobbe Lao-tsu, vicino ai settanta, si dice sottile: tagliare, bisogna sempre e solo tagliare».
Ma questo nuovo libro non è un romanzo, bensì un mosaico composto da quarantotto racconti. I numeri per Cordelli non sono mai casuali. In realtà i racconti sono trentadue, nella numerazione dei capitoli ci sono dei buchi, dei salti temporali. Ma anche trentadue risponde a un sistema di significazione, perché è un multiplo di otto - il numero di romanzi che Cordelli ha scritto nella sua vita, o ai quali avrebbe voluto fermarsi. Otto, se in alcune simbologie rappresenta il numero perfetto, l'infinito, l'ordine cosmico, nella simbologia cristiana è, appunto, la resurrezione. Un otto che occorre moltiplicare per quattro. Quaranta sono gli anni in cui Cordelli ha composto il libro. E potremmo anche creare delle simmetrie, dei rimandi d'atmosfera, prima ancora che di stile, e provare a indovinare l'arco di vita in cui questi vennero scritti, se l'azzardo, lo slancio eroico, la strafottenza giovanile di Paradiso fa pensare agli esordi di Cordelli, dico a Procida, ma anche a I puri spiriti; e Uccelleria, il suo paesaggio, a Guerre lontane; o ancora la corruzione morale di Corviale a Un inchino a terra; e la resa del corpo - il desiderio come approssimazione alla morte - di Purificazione a Una sostanza sottile.
In questi trentadue racconti - ma si diceva quarantotto, contando anche le assenze, cioè contando anche il peso dei numeri mancanti, del vuoto di senso, delle sottrazioni, delle scomparse che pesano quanto le presenze -, ci sono tre nomi che ritornano costantemente. Tre nomi di donna, prima che donne vere e proprie. Tre nomi che rimandano a Shakespeare, come dire al teatro per antonomasia; come dire alla vita nella sua totalità che diventa teatro; alla vita che, andando in scena, diviene oggetto di interpretazione. Costanza, tratta da Re Giovanni, Miranda, dalla Tempesta, Emilia, da Otello. Rispettivamente, nell'opera shakespeariana, una madre, una figlia e una moglie. Sono tre amori vissuti, anche contemporaneamente, dalla voce narrante. Sono una triangolazione. Sono la forma che assume il desiderio, e quindi un modo di vedere, cioè interpretare, la realtà, per mezzo del soggetto desiderato. Poi ce n'è una quarta, Elena, che nel Sogno di una notte di mezza estate era quella che amava senza essere corrisposta. È il punto di rottura della triangolazione - non più un oggetto del desiderio, ma colei che desidera e insegue il desiderante, cioè il narratore. Il narratore le desidera e le ama, ma sa pure che non esiste desiderio che possa eludere il tradimento, e questo perché desiderare è interpretare. E il tradimento è, in questo senso, la sola forma di conoscenza della realtà che possediamo.
Abbiamo detto racconti, ma di questa forma tradiscono l'impianto, la struttura. Perché se è vero che ogni capitolo è contrassegnato da un luogo diverso di Roma, e se è vero anche che continuamente Cordelli ripete che il tempo non gli interessa, che il tempo non esiste, e che la sola cosa che conta è lo spazio, è vero anche che quei luoghi non vogliono raccontare una storia che abbia un principio e una fine, ma trovare che cosa di quei luoghi la vista ha conservato, «l'atto del vedere non è semplice, non esiste il vedere in sé, il vedere è sempre tradotto in una frase, un pensiero, un pensare». Il punto è esattamente questo.
A quei luoghi è possibile dare un nome perché la vista li ha tradotti (traditi), li ha fatti rivivere in una frase, un pensiero, in quel pensiero che testimonia l'esistenza stessa della realtà - o della sua interpretazione -; quella realtà vissuta tutta nella mente, nel tempo della non azione, lì dove i segni si compongono in una simmetria, lì dove l'io può riconnettersi a un ordine cosmico, in quello spazio di resurrezione che è la stessa scrittura: una realtà impossibile, quindi la sola che abbia davvero senso.
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