Nell'Inghilterra tardovittoriana e in quella edoardiana la figura di Joseph Chamberlain (1836-1914) fu molto popolare ma anche controversa. Quest'uomo che Winston Churchill avrebbe definito «il personaggio più vivace, brillante, ribelle della vita politica inglese» della quale per almeno un trentennio avrebbe fatto «il buono e cattivo tempo» legò il proprio nome a comportamenti e problemi politici che sembrano ora tornati di attualità: dal particolare rapporto di tipo «populistico» che ebbe coi suoi sostenitori al disinvolto trasformismo che lo spinse a passare da un partito all'altro e a fondarne di nuovi, dalla «questione irlandese» fino a quel sentimento isolazionista che, in qualche misura, oggi si ripropone attraverso la Brexit.
Nell'Inghilterra del suo tempo, che era allora anche la patria dello snobismo, Chamberlain faceva la sua figura. Malgrado non praticasse sport, mantenne sempre un aspetto giovanile. Bernard von Bülow, che lo incontrò all'epoca della guerra anglo-boera quando aveva già superato la sessantina, ebbe l'impressione che dimostrasse dieci anni di meno e lo descrisse con poche ma efficaci parole: «Di statura media, testa allungata, volto liscio, interamente raso, fronte bella e superba, naso arguto, occhi freddi». Non aveva ascendenze aristocratiche perché il padre era un piccolo calzaturiero londinese, ma della buona società entrò subito a far parte e vi si trovò assai bene. Quando ritiratosi per dedicarsi alla politica, ancor giovane, dall'attività imprenditoriale di produzione di viti che lo aveva rreso ricco fece il suo ingresso ai Comuni, l'anziano leader conservatore Benjamin Disraeli disse che portava il monocolo «come un gentleman». Era una sorta di cooptazione fra le file della più ristretta aristocrazia inglese.
All'aspetto esteriore «Joe» così fu presto chiamato dagli amici ma anche dagli avversari e dalla stampa satirica teneva moltissimo. Era, quasi, un novello Lord Brummell. Si rivolgeva ai migliori sarti di Londra che gli confezionavano giacche da giorno dal taglio impeccabile ed eleganti frac per la sera. L'alto cappello a cilindro e l'immancabile orchidea al bavero, così come il monocolo cerchiato d'oro, completavano l'abbigliamento di un uomo che amava la vita mondana e le serate culturali.
Per quanto fosse, oltre che ambizioso pure politicamente abile e astuto, Chamberlain non riuscì mai a mettere piede a Downing Street come primo ministro a differenza del figlio Neville che lo fu nella seconda metà degli anni Trenta caldeggiando la politica di appeasement ma ricoprì importanti cariche ministeriali in due Gabinetti in momenti delicati ed ebbe un riconosciuto peso politico a livello nazionale. Della sua disinvoltura nel cambiar partito o nel fondarne di nuovi, von Bülow ha lasciato scritto: «Non c'era forse questione politica nella quale egli non avesse abbruciato ciò che prima aveva adorato, e adorato ciò che prima aveva bruciato» aggiungendo, inoltre, che «difendeva ciascuno di questi cambiamenti, fra l'applauso della maggioranza dei suoi compatrioti, con l'argomento che non egli, ma le circostanze avevano mutato».
A questo discusso ma senza dubbio importante protagonista della politica inglese ai tempi del massimo fulgore dell'imperialismo britannico è dedicato il bel volume di Giovanni Aldobrandini Il buono e il cattivo tempo. Joseph Chamberlain e il progetto riformista e imperialista nell'Inghilterra tardovittoriana (Le Monnier, pagg. VI-346, euro 24): un saggio approfondito ed equilibrato che unisce al taglio biografico un apprezzabile approccio politologico e di storia del pensiero politico. Vero e proprio self made man Chamberlain creò, utilizzando tecnologie sofisticate e metodi di razionalizzazione del lavoro sul modello americano, la più grande e moderna fabbrica inglese di viti che giunse a impiegare 2500 operai e ad esportare in ben quindici paesi. Alla vita politica, «Joe» si dedicò presto, all'inizio degli anni Settanta, dapprima come sindaco di Birmingham poi come membro della Camera dei Comuni eletto per i liberali. Questi, per la verità, erano il punto di convergenza di gruppi anche culturalmente eterogenei che andavano dai progressisti radicali, fra i quali Chamberlain, ai sostenitori di Gladstone, dai cosiddetti new liberals, che puntavano a stemperare il tradizionale individualismo liberale in una prospettiva più comunitaria, fino ai liberal-imperialisti fautori di una politica di national efficiency per il Regno Unito e i territori imperiali.
Entrato nel 1880 a far parte del governo guidato da Gladstone come ministro del Commercio, Chamberlain si trovò a dover affrontare, fra le altre, la spinosa questione irlandese sostenendo un progetto che prevedeva per l'Irlanda un piano di decentramento, ma non una vera indipendenza né la creazione di un parlamento autonomo. E collegata a questa annosa questione, destinata a ritornare ciclicamente di attualità, fu la scissione dei liberali e la nascita del Partito liberale unionista della quale Chamberlain fu protagonista. Egli, pur non contrario a concessioni di tipo amministrativo e a riforme agrarie, era convinto che permettere all'Irlanda la creazione di un parlamento autonomo avrebbe significato intaccare la compattezza dell'impero britannico.
Dell'impero e della stessa ideologia imperialista, Chamberlain fu sempre convinto sostenitore. Riteneva che gli inglesi avessero il dovere morale di esportare la civiltà e diffondere nelle colonie il codice di comportamento del gentleman. Era il concetto espresso dallo scrittore Rudyard Kipling con la celebre battuta sul «fardello dell'uomo bianco» o dal viceré dell'India Lord George Curzon con l'affermazione che l'impero britannico era «il più grande strumento per realizzare il bene» che il mondo avesse mai visto. Alla base di questa visione imperialistica c'era una sorta di «paternalismo umanitario» che avrebbe fatto dichiarare a Chamberlain nel 1903 che «Il manifesto destino dell'Inghilterra è quello di essere una grande potenza colonizzatrice e civilizzatrice». La collaborazione degli unionisti coi conservatori Chamberlain divenne ministro delle Colonie nel governo Salisbury è da collegarsi, pur accanto a motivazioni contingenti, a questa visione dell'imperialismo.
Non solo racconto biografico ma anche affresco politico di un'epoca della storia inglese, il volume di Aldobrandini tratta a fondotanti temi, dalla guerra anglo-boera alla politica di riavvicinamento alla Germania fino ai progetti di introduzione di quelle «tariffe imperiali» (cioè dazi doganali) destinate a trasformare l'impero in una unione protezionistica.
Che è, a ben guardare, uno dei possibili esiti di una Brexit che finisce per porsi come tentativo di recupero piaccia o non piaccia poco importa di un'antica e tradizionale vocazione «insulare» e imperialistica della storia inglese.
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