Con Roma Calibro Zero (Sem) Mauro Marcialis propone un noir realistico e senza sconti che fotografa situazioni criminali e sociali che attanagliano la città di Roma. Scontri fra gang, estorsioni e ricatti, vedette, loschi traffici vengono scandagliati nel profondo dall'autore che da tempo lavora nella Guardia di Finanza e che ha un occhio speciale su certe situazioni: «I crimini economico-finanziari sono molto caratterizzanti. Dalla loro quantità e dalla loro qualità possiamo farci un'idea abbastanza precisa di un intero contesto sociale. Sono quei crimini che legano le organizzazioni mafiose alle Istituzioni attraverso le prestazioni dei cosiddetti colletti bianchi e dei delinquenti in ambito imprenditoriale. La realtà è il riflesso di queste dinamiche anche se alcune volte è celata dalle varie armi di distrazioni di massa. Il motivo è semplice: meglio non aprirle, certe porte».
Quando ha sentito l'esigenza di scrivere storie noir?
«Da appassionato osservatore di storie criminali, molto banalmente la molla scatta in tutti quei momenti in cui voglio raccontare la storia che mi piacerebbe leggere. Le esigenze sono diverse. Ci sono quelle dell'uomo, del narratore e del cittadino. C'è l'indignazione di fronte ai soprusi e alle ingiustizie, c'è la rabbia dell'impotenza, c'è il desiderio di riscatto, c'è il bisogno di conoscersi intimamente, di affrontare ed esorcizzare le proprie paure ed insicurezze, c'è la curiosità nell'indagare le cause umane, sociali, politiche ed economiche di una storia che ci ha portati qui, ora, a combattere guerre quotidiane su diversi livelli. Esistono tante Italia, quella migliore è di certo un'eccellenza, ma quella peggiore, purtroppo, non è da meno. Il risultato finale non è esattamente matematico e l'ago della bilancia pende spesso pericolosamente verso il basso: collusioni mafiose, corruzione dilagante, degrado degli organi statali, ambienti distrutti dai rifiuti tossici e dagli scarichi industriali, indebitamento insanabile, ingiustizie sociali Il noir si concentra sulla parte peggiore: è l'occhiataccia rivolta al deterioramento della società e alle bassezze dell'uomo».
Com'è nato Roma Calibro Zero?
«Nasce come la naturale evoluzione dei precedenti noir (La strada della violenza, Dove tutto brucia), e quel mondo criminale farcito di iperconnessioni tra manovalanza di bassa lega, organizzazioni mafiose ed establishment finanziario e politico approda nella capitale. Mi sono limitato ad agganciare un fatto di cronaca riconoscibile ad alcune delle logiche dell'ormai famigerato mondo di mezzo».
Che immagine viene fuori di Roma?
«Nel romanzo le inquadrature si focalizzano su scenari raccapriccianti e, di riflesso, l'immagine di Roma può risultare parecchio sbiadita. Al netto della visione di personaggi disillusi e impicciati, credo sia in ogni caso indubbio il suo progressivo imbruttimento. Come per magia, però, ogni giorno rinasce una città magica e seducente. L'eternità sembra avere un suo perché, con Roma».
Pensa che sia facile distinguere fra colpevoli e innocenti?
«Nelle mie storie non lo è quasi mai, perché spesso il colpevole è spinto da motivazioni nobili oppure costretto a delinquere da circostanze sfortunate o dalla necessità di difendersi. È colpevole dal punto di vista prettamente giuridico, molto meno da quello morale e umano, ed è il motivo per il quale non di rado capita che il lettore si ritrovi a parteggiare per personaggi all'apparenza deplorevoli».
Quanto pensa di essere stato influenzato da James Ellroy, Sergio Altieri e Stefano di Marino?
«Sono autori di assoluto valore e hanno certamente condizionato il mio modo di scrivere, al pari di David Peace e Giuseppe Genna, almeno all'inizio del mio percorso. Da lettore che adora scrittori febbricitanti e stravaganti, hanno avuto molta influenza su di me anche Ellis, Welsh, Palanhiuk».
Crede che il noir debba essere più romanzo sociale di testimonianza civile o più fiction d'evasione?
«Può ottemperare a parecchie funzioni, comprese le due che ha citato. Per certi versi, come ha dichiarato lo stesso Ellroy, nel caso in cui le dinamiche siano verosimili e ancorate a luoghi e periodi ben definiti (come nella sua trilogia che ha il suo incipit con American Tabloid), potrebbe addirittura avere il valore di un trattato storico».
Che rapporto ha con i ricordi?
«Pessimo, direi. Quello che ho scritto nel prologo: La mia condanna sono i ricordi, soprattutto quelli belli. Sono i bei ricordi che ti fottono, perché ti costringono a pensare a quello che hai perso, mi rappresenta molto. Sono nostalgico, e lo ero anche da ragazzo».
Quanto lavora sulle parole?
«Lo stile volutamente accelerato e minimalista, l'utilizzo di un linguaggio dissacrante e provocatorio, l'ideazione di certe atmosfere claustrofobiche e soffocanti e di flussi di coscienza ridondanti e deliranti costituiscono, in ambito noir, il mio passo naturale, per cui non sento la necessità di lavorarci molto. Per quanto riguarda la storia, discorso simile: scrivo di getto e la maggior parte delle volte senza sapere cosa succederà nella pagina successiva. Mi piace l'idea di rimanere sorpreso da eventi creati al momento».
Lei ha scritto romanzi storici ma anche sul mondo dei tronisti, come sceglie le sue storie?
«La mia narrazione è influenzata dalle tematiche e dagli obiettivi che intendo perseguire e in ogni romanzo ci sono impronte diverse. Con i noir la mia ingenua intenzione è stata per molto tempo quella di tentare di canalizzare il fastidio e la rabbia del lettore in forti prese di posizione contro certe ingiustizie. Nei romanzi storici l'intento è stato anche quello di scovare analogie nelle dinamiche e nell'esercizio del potere in epoche diverse.
È un cliché ma anche un dato di fatto: la storia si ripete, sempre, ed il più delle volte si scrive col sangue. Nelle escursioni che ho fatto con altri generi (Io&Davide, Il dolore che sarà) la narrazione si è concentrata invece su aspetti più intimi dell'animo umano».
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