Lo scrittore che ha inquietato più di una generazione di lettori con la pubblicazione del bestseller Rosemary's Baby da cui Roman Polanski trasse l'omonimo film del 1968 con Mia Farrow e John Cassavetes - torna in libreria con un altro dei suoi romanzi più riusciti, I ragazzi venuti dal Brasile, ora riproposto da BigSur dopo la prima edizione italiana del 1977 con medesima traduzione di Adriana Dell'Orto rivisitata da Martina Testa (pagg. 302, euro 17,50).
Se con Rosemary's Baby Levin ha creato, come disse Truman Capote, «un'oscura e brillante storia di stregoneria moderna», con I ragazzi venuti dal Brasile lo scrittore e drammaturgo americano ha superato se stesso. Levin immagina un gruppo di gerarchi nazisti i quali, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono fuggiti in Sud America e negli anni '70 progettano di far nascere il «Quarto Reich» cercando di clonare un nuovo Adolf Hitler. Si rivolgono così a Joseph Mengele, che nei campi di sterminio era chiamato «il Dottor Morte» per la sua crudeltà nell'effettuare esperimenti di eugenetica specialmente sui bambini e in particolare sui gemelli. Mengele risiede in una villa in Brasile adibita a clinica degli orrori: continua i suoi esperimenti e in particolare, avendo prelevato un campione di sangue ad Adolf Hitler prima della sua morte, crea 94 cloni: 94 bambini nati in provetta che vengono affidati ad altrettante famiglie in Nord America e in Nord Europa. I genitori che crescono inconsapevolmente i piccoli cloni sono stati scelti in base a rigidi criteri mirati a rispecchiare l'indole dei genitori di Hitler: tra i due coniugi c'è una notevole differenza d'età, il padre è assente e tirannico verso il bambino, mentre la madre si comporta in modo affettuoso ed amorevole. Mengele affida poi ad alcuni sicari il compito di eliminare tutti i padri non appena i cloni raggiungono i 14 anni di età (Hitler, nato nel 1889, perse il padre nel 1903). Il progetto del «Dottor Morte» è di ricreare esattamente le condizioni in cui venne a trovarsi il giovane Hitler, augurandosi che almeno uno dei 94 ragazzi possa diventare il nuovo Führer.
Al tempo della sua pubblicazione il romanzo fu letto come un thriller fantapolitico o un romanzo distopico, come ad esempio La svastica sul sole di Philip K. Dick o La notte della svastica di Katharine Burdekin, che immaginavano il ritorno al potere di Hitler. E invece I ragazzi venuti dal Brasile riletto oggi sembra davvero fantascienza, ma soltanto perché Levin ha incredibilmente anticipato temi come la clonazione umana, i rigurgiti antisemiti e razzisti, e soprattutto ha denunciato in forma di romanzo l'esistenza di un progetto a convergenze politiche parallele per dare rifugio ai criminali nazisti. Solo da pochi anni sappiamo, attraverso documenti e testimonianze storiche, che moltissimi ex ufficiali delle SS trovarono accoglienza, appena finita la Seconda Guerra Mondiale, non solo in Sudamerica ma anche negli Usa: si legga ad esempio il recente saggio I nazisti della porta accanto del Premio Pulitzer per il giornalismo Eric Lichtblau, edito in Italia da Bollati Boringhieri, che racconta come «l'America divenne un porto sicuro per migliaia di uomini di Hitler».
Anche su Mengele Ira Levin non sbagliò le proprie intuizioni: oggi sappiamo che visse in Brasile, sotto il nome falso di Wolfgang Gerharf, grazie all'organizzazione O.D.E.SS.A. (Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen, Organizzazione degli ex-membri delle SS) che finanziò la fuga e la permanenza di migliaia di nazisti.
Al di là della trama e delle intuizioni - che sono diventate anche l'omonimo film interpretato nel 1978 da un grandioso Gregory Peck nei panni di Mengele - è la prosa di Levin a colpire per la sua modernità: una scrittura a immagini, quasi cinematografica, ma che non concede nulla alle tentazioni delle facili vie narrative dei bestseller. E poi i tempi: perfetti. Ogni pagina, ogni frase, è un capolavoro di cesellatura, di incastri: non a caso Stephen King ha scritto che «Ira Levin è l'orologiaio svizzero del thriller».
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