Foggia città del jazz? Com'è possibile? Ce lo spiega l'ineffabile Renzo Arbore, che stasera, al Festival Medimex, ha radunato alcuni dei più importanti jazzman italiani - da Enrico Rava al pianista Dado Moroni, dalla coppia Stefano Di Battista e Nicky Nicolai a Roberto Gatto - per una festa sui generis all'insegna della musica afroamericana.
Come mai a Foggia?
«Perché qui, nella mia città, c'è l'aeroporto militare più importante d'Italia. Dopo la guerra arrivarono gli americani con la loro musica e i famosi V Disc che mi diedero la possibilità di ascoltare Louis Armstrong, Buddy Bolden, Bix Beiderbecke. Si suonava molto jazz all'epoca, soprattutto al Circolo Ufficiali che stava proprio di fronte a casa mia. E poi a Foggia nacque il Jazz College, di cui sono stato presidente».
Quali sono stati i suoi primi maestri?
«La Puglia è la regione delle bande musicali quindi, oltre che dai dischi degli artisti citati, ho imparato il primo swing da oscuri bandisti, che hanno costituito la prima generazione di jazzman italiani. C'erano il clarinetto jazz e le prime chitarre elettriche, fu una cosa sconvolgente: non c'era ancora il rock'n'roll».
Fu lì che scelse il clarinetto?
«Fu una cosa un po' strana; nel balcone accanto al mio abitava Franco Tolomei, che poi suonò a lungo nei club di tutta Italia. Lui aveva il clarinetto e io possedevo una tromba: finì che ci scambiammo lo strumento... Lui è stato importante per la mia formazione. Mi ha prestato tutte le annate della rivista Musica Jazz dal 1953».
A cosa si deve la diffusione del jazz in Italia?
«Era una novità assoluta, un nuovo modo di comportarsi e soprattutto di vivere la musica con lo swing che si diffuse in tutta Italia. I ragazzi che organizzavano le festicciole in casa portavano i dischi di Armstrong, Frank Sinatra, Nat King Cole... Ballavamo con quelle cose lì... Però guardavamo anche a Milano e Torino. A Milano c'erano musicisti del calibro di Franco Cerri e Gorni Kramer, a Torino le orchestrine in locali come il Cavallino Bianco e soprattutto l'orchestra della Rai. Poi c'erano gli artisti da night, grandi performer come Bruno Martino che facevano sognare. E poi da noi, attraverso la Francia, che aveva avuto come colonia la Louisiana, arrivavano tanto jazz e tanta musica popolare, dal blues allo zydeco. Insomma una manna per noi appassionati».
E il jazz in italia oggi com'è?
«Penso che, dopo gli Stati Uniti, l'Italia ormai esprima la migliore musica jazz, legata alle radici ma anche molto personale. Abbiamo metabolizzato il linguaggio afroamericano e ognuno ha una sua cifra stilistica e - come Paolo Fresu per citare un esempio - si aggancia anche alle proprie tradizioni popolari».
E in Usa?
«Rimangono i mostri sacri come Keith Jarrett e Sonny Rollins, ormai anziani e gli artisti come Wynton Marsalis che sono strumentisti eccezionali ma non sono dei veri capiscuola».
Insomma alla fine per Arbore che cos'è il jazz?
«È l'arte dell'improvvisazione che io ho rubato dal jazz.
È difficile improvvisare anziché recitare. Il jazz espone un tema su cui improvvisare, io ho fatto la stessa cosa parlando in tv con i miei programmi. E poi il jazz è il ritmo binario che nasce dal cuore. Che ti prende e non ti molla più».
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