Nel fatidico 1918 esce Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler, che viene ora riproposto, insieme a Le sorelle ovvero Casanova a Spa (commedia alquanto fiacca), a cura di Giulio Schiavoni nei «Classici Moderni» della Bur. Il racconto dello scrittore viennese racchiude i motivi centrali della sua narrativa: giovinezza e decadenza, sensualità e morte in un indistricabile e commovente intreccio, che costituisce la sintesi della sua narrativa, ormai matura come già si percepisce dall'incipit: «A cinquantatré anni Casanova, da tempo non più spinto a viaggiare per il mondo dal giovanile piacere dell'avventura, ma dall'inquietudine dell'avanzante vecchiaia, fu preso da una così intensa nostalgia per la sua città natale, Venezia, che cominciò a girarle intorno simile a un uccello che vien giù a morire calando da libere altezze in sempre più strette volute».
La novella è stata composta tra 1915 e 1917, negli anni tremendi della guerra con la percezione, ormai evidente, della tragica fine dell'Austria asburgica. L'Impero austro-ungarico andava incontro alla sua dissoluzione per consunzione accelerata dall'inconsulta dichiarazione di guerra alla Serbia all'origine del conflitto fatale allo stato asburgico e all'Europa tutta. E la novella di Casanova è la metafora che meglio legittima e descrive la fine dell'Austria imperiale, felix e infelix nel medesimo tempo.
Tutti gli ingredienti dell'arte di Schnitzler sono racchiusi in questo racconto raffinato, malinconico, stupendo. La sensualità del protagonista (che allude all'autore) si rivela nella sua essenza quale infinita nostalgia di giovinezza, sempre più lontana. Casanova è ormai un vinto, stremato, vicino alla morte. Eppure è ancora proteso verso una soddisfazione sfuggente, ma irrinunciabile, ché il desiderio erotico cela in sé la platonica tensione verso una mistica unità impossibile. La nostalgia sensuale è struggimento, ancorché inconsapevole, di trascendenza. L'avventuriero percepisce oscuramente che la sua brama di piacere, di soddisfazione, di eros non è che un altro modo di avvicinamento a un'esperienza di totalità, di assoluto. Nella sua ricerca di piacere vi è una quasi sovrumana spinta di assoluto, destinata all'insuccesso che trova solo nella morte l'estremo compimento: in ciò si conferma per Casanova il destino di Don Giovanni. E l'amplesso, la conquista, la ricerca sono soltanto segmenti di un labirinto sconosciuto in cui ogni volta ci si perde, ogni volta si spera di trovare il filo di Arianna, ma la verità è che non esiste più un'Arianna, non esiste più un filo, né un senso. Tutto appare senza significato, nella superfluità dell'umano esistere, e persino il momento dell'appagamento, si rivela deludente, illusorio. Non c'è alcun amplesso in cui stordirsi, alcuna avventura in cui smarrirsi, alcun oblio in cui perdersi definitivamente, né aiutano la fama, l'onore, la ricchezza: ci si avvia alla vecchiaia, all'inevitabile decadenza del corpo, intesa come estremo appuntamento e annientamento.
La verità gli si rivela proprio nelle braccia della giovane così spasmodicamente desiderata come il ritorno della felicità, della giovinezza, della sua stella creduta a torto intramontabile. Ma dopo l'ultima conquista notturna l'alba mostra spietatamente la realtà: «Negli occhi di Marcolina lesse la parola che era per lui la più terribile di tutte, poiché esprimeva la sentenza definitiva: vecchio. Se in quel momento avesse avuto il potere di distruggersi con una forma magica, lo avrebbe fatto».
L'ultima avventura era costruita su uno scambio di persona: all'inevitabile duello con il giovane amante della donna ingannata la fortuna gioca ancora a favore dell'avventuriero veneziano, che, nello scontro, ritrova una energia insperata: «Il braccio era sicuro, la mano leggera, lo sguardo acuto come sempre. Giovinezza e vecchiaia sono fiaba, pensò Non sono io un dio?» Ma l'autore non concede al suo personaggio la grazia della morte: Casanova dovrà sperimentare la condanna più atroce, la decrepitezza, la vecchiaia sempre negata, sfuggita, ma inesorabile come il fato. Torna alla sua Venezia, ma alla condizione di diventare, lui l'audace ribelle, una prezzolata spia della Repubblica ormai al tramonto, così come lo era anche la sua Austria.
Schnitzler, con i suoi drammi e soprattutto con i suoi racconti, raffigurò questa disintegrazione che ha lasciato immani problemi politici e sociali irrisolti. È sufficiente pensare alle questioni ancora aperte dalla scomparsa dell'Impero nei Balcani, ma anche nella Galizia ucraina intorno a Leopoli, fino al 1918 splendida città asburgica. In quella immane crisi precipitò dapprima la comunità ebraica, quasi sterminata, per trascinare tutta la Mitteleuropa, che, nella catastrofe delle due guerre, pare che abbia perso i suoi fondamenti di civiltà.
In questo racconto simbolico Schnitzler tenta, con grazia mozartiana, di rappresentare quell'apocalissi. Non a caso il suo ultimo racconto, Fuga nelle tenebre, pubblicato nel 1931 poco prima della sua morte, costituisce la perfetta metafora profetica di quella dissoluzione, una inarrestabile fuga nelle tenebre appunto.
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