Metropolis di Ben Wilson (il Saggiatore, pagg. 560, euro 34), storico e ricercatore dell'Università di Cambridge, è un saggio che racconta, come dice il sottotitolo, la «Storia della città, la più grande invenzione della specie umana». È ricchissimo di aneddoti e dati curiosi, per esempio: fino al 1800, la popolazione che viveva nelle aree urbane era circa il 3-5 per cento del totale, mentre nel 2050 due terzi dell'umanità vivrà in città; nel 2025, 440 città con un totale di 600 milioni di abitanti (il 7 per cento del totale) rappresenteranno, da sole, la metà del prodotto interno lordo mondiale; in Cina, il 40 per cento della produzione economica deriva da tre megacittà. E così via...
Ben Wilson, perché la città è «la più grande invenzione della specie umana»?
«La primissima città, Uruk, ci ha dato la parola scritta, la moneta e la ruota. Gli ateniesi la filosofia. L'Amsterdam cosmopolita del '600 ha inventato la Borsa. Dalla Baghdad del IX secolo al Rinascimento italiano, l'invenzione è un fenomeno urbano. Abbiamo inventato le città e le città, a loro volta, sono diventate il laboratorio ideale per le nostre invenzioni».
Quali sono i vantaggi di vivere in una grande città?
«Le città ci spingono a collaborare e a competere con gli altri. Perciò la ricchezza si concentra nelle città: esse agiscono come un magnete per i più giovani e ambiziosi. Anche se molti, nella storia, vi si sono trasferiti alla ricerca disperata di un lavoro. Sul lungo periodo, la città offre standard di vita e di istruzione migliori».
E durante una pandemia come quella attuale?
«L'esperienza di vivere e lavorare da soli così a lungo aumenterà il desiderio di stare insieme. Nulla può sostituire la creatività che sorge dal contatto faccia a faccia, o l'esplosione che nasce da un incontro inaspettato, che è il marchio di fabbrica della vita urbana».
Nessuno svantaggio?
«Certo, alcuni vantaggi sono diventati svantaggi. La densità di abitanti, il mescolarsi con gli estranei, l'essere sociali sono diventati qualcosa di rischioso. Ma una città in ripresa è sempre un luogo eccitante in cui vivere. E poi abbiamo bisogno delle città: dobbiamo farle funzionare anche nell'era post-Covid, perché non c'è abbastanza spazio per tutti per cercare la bella vita al di fuori di esse».
La nostra relazione con la città cambierà?
«Sì. Temo che ci si rivolgerà sempre più alle auto, e le auto uccidono la vita di strada, dividono i quartieri e occupano troppo spazio. Ma credo che, sul lungo periodo, le nostre abitudini si riaffermeranno. Una cosa è certa, però: se le città non ritroveranno il loro vecchio modo di vivere, i teatri, i caffè, le gallerie d'arte, i ristoranti, beh, non varrà la pena viverci. E dovremo renderle sempre più verdi».
Che legame c'è fra città e produttività?
«Vivere e lavorare nella folla ci rende più produttivi. Ogni volta che una città raddoppia la popolazione, la sua produttività aumenta del 5-7 per cento».
Circa un miliardo di persone vive negli slum. Descrive questi quartieri degradati come fucine di spirito imprenditoriale.
«Dagli slum di Manchester e Chicago nel 1800 a quelli odierni di Mumbai e Lagos, la vita di città aiuta i più poveri. Davari, una baraccopoli di Mumbai con oltre un milione di abitanti e uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta, pullula di migliaia di microimprese e laboratori, per un fatturato di un miliardo di dollari l'anno. L'Ortiga Computer Village di Lagos, in Nigeria, è nato grazie a qualche smanettone alla fine degli anni '90: oggi è il mercato informatico più grande dell'Africa occidentale, con un fatturato giornaliero di milioni di dollari. L'innovazione sboccia al livello della strada. È un modo per sopravvivere alla durezza della vita urbana».
Nelle città però ci sono anche sempre più grattacieli.
«Le città globali vanno assomigliandosi. I grattacieli stanno conquistando il mondo, creando isole di privilegio, a Shanghai come a Lagos. La disuguaglianza si legge nello skyline».
L'anima della città, dice, non è l'ordine, bensì il caos. Perché?
«Spesso le città hanno successo quando non sono pianificate. Il trionfo di Londra nel '700 come centro finanziario del mondo è avvenuto grazie agli incontri nei caffè, più che alla forza delle istituzioni. La Tokyo contemporanea è riemersa dalle ceneri della guerra perché la gente ha potuto ricostruirla. L'antica Atene era sporca e caotica. Oggi, a Los Angeles, i Latinos stanno riplasmando la città, rendendola più pubblica e sociale: loro, non il piano regolatore. È dal caos che nasce l'ordine, e che sorgono invenzioni di ogni tipo».
La prima città globale?
«Lisbona fra '400 e '500: la prima città a collegare l'Europa con l'America, l'Africa e l'Asia. Batté un sentiero subito seguito da Amsterdam, Londra e New York. Oggi le città globali hanno più cose in comune fra loro che con i propri Paesi».
E la prima megacittà?
«L'antica Roma, con milioni di abitanti. Le megacittà sono il futuro della nostra epoca: ora sono concentrate in Asia ma, alla fine del secolo, le più grandi saranno in Africa. Lagos avrà 50 milioni di abitanti».
Perché il cibo di strada è così importante nella storia delle città?
«Il cibo di strada è sempre stato al cuore della vita sociale urbana. In passato le persone non avevano la cucina e i pasti si consumavano per strada, in movimento. Oggi lo streetfood è una moda, allora era una necessità. Nel IX secolo, Baghdad era celebre per il suo cibo di strada, tanto che i califfi erano usi travestirsi per mangiarlo di nascosto... E poi cucinare e servire cibo è sempre stato il modo in cui gli immigrati hanno trovato il loro posto in una città straniera. D'altra parte, le città ci attirano non solo per lavorarci, ma perché sono luoghi di piacere, per lo shopping, il romanticismo, l'arte, il divertimento e, soprattutto, la gastronomia».
Le tre città più importanti della storia?
«Difficile... Direi Roma, che ha anticipato la metropoli moderna e il divertimento su larga scala. New York, immagine trionfante dell'ambizione umana e, insieme, di ciò che può andare storto. E, oggi, Shanghai, un monumento all'urbanizzazione densa e rapida che è il tratto distintivo della nostra epoca e che definirà il nostro futuro».
Fra le megacittà di oggi, qual è la più stupefacente?
«Lagos. Quasi 25 milioni di persone vivono in una città sopraffatta dalla sua stessa crescita. È una specie di miracolo, che ci dice molto dei settemila anni di storia urbana: siamo bravi a vivere nelle città, nonostante ostacoli enormi. E ci dice molto del nostro futuro: presto saremo una specie quasi del tutto urbanizzata. Sarà confusionario e difficile, ma ce la faremo».
Perché le grandi città sono la chiave per salvare il pianeta e noi stessi?
«Alle città servono più alberi, zone umide, fiumi, spazi verdi e biodiversità. Abbiamo creduto che la tecnologia ci avrebbe protetto; invece, ora scopriamo che solo le soluzioni naturali possono salvarci dall'aumento delle temperature e dagli uragani. E poi le città non sono deserti grigi, bensì luoghi di straordinaria biodiversità: un'area abbandonata può diventare ecologicamente ricca quanto una riserva naturale».
Non serve altro?
«Dobbiamo abitare con densità ancora maggiori, anziché allargarci.
Città compatte, con una buona rete di trasporti e quartieri in cui poter camminare, sono efficienti dal punto di vista delle risorse e non si espandono a danno dell'ecosistema. Vivere ad alta densità è stato una spinta per la nostra creatività e, nel XXI secolo, si dimostrerà anche vitale per il pianeta».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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