L'amore è una megacity in cui ti perdi e ti ritrovi a morsi: fanno male, ma ti consentono di sopravvivere. Fame blu (La nave di Teseo, pagg. 224, euro 19), l'ultimo romanzo di Viola Di Grado, con l'amore ci incolla due continenti, Europa e Asia, tra Shanghai e Roma. All'iniziazione sentimentale di due ragazze fanno da mentori i simboli e i desideri reali e digitali di Oriente e Occidente, potenti, abbaglianti, infidi. A dieci anni da Settanta acrilico trenta lana (che ritorna in una nuova edizione), che fu Campiello Opera prima, candidato Strega e bestseller internazionale, la Di Grado, classe 1987, una vita tra Londra e l'Italia, un passato a Kyoto e una laurea in Filosofie dell'Asia Orientale, è cresciuta ancora: è intensa e ironica, se ne frega delle appartenenze e delle mode letterarie, rimane sincera e spudorata, come quando pensa «a cose inutili con molta intensità, ad esempio che il linguaggio non dovrebbe uscire dallo stesso buco da dove esce il vomito e lo sputo».
Perché l'amore, al centro? È ancora un argomento interessante?
«No, l'amore non è narrativamente interessante. Lo è invece guardare come si deformano - in meglio o in peggio - le cose al suo passaggio. Certo che è ancora possibile amare, ma non sempre è auspicabile».
Un'italiana all'estero. Ci hai provato anche tu: come ci si sente?
«Io ho sempre vissuto all'estero. A 17 anni ho lasciato la Sicilia e da allora ho vissuto un po' ovunque, senza mai fermarmi troppo a lungo. La mia dimensione è dunque sempre quella di un'esule, sono me stessa solo nella fuga, perché è nel lasciare qualcosa che la mia scrittura fiorisce».
«Le ragazzine fotogeniche erano ovunque, con i loro orsacchiotti e le loro minigonne, la faccia inceronata»: a chi assomigliano la tua protagonista italiana e la cinese Xu in questo mondo instagrammabile?
«La protagonista somiglia al fratello gemello e questa somiglianza la schiaccia. Vorrebbe somigliare a se stessa ma nessuno le ha mai insegnato come si fa. Anne Sexton direbbe che è un acquarello, si dissolve. Xu invece ha una personalità molto definita, esibizionista. Gestisce il trauma nel modo opposto: trasformandolo in immagine vacua, rendendolo pura superficie. Xu è al passo coi tempi: ha un rapporto consumistico con se stessa e con la vita».
Perché la Cina? Che cosa ci possiamo aspettare dalla tua generazione, laggiù, che idee ci sono in circolo?
«La Cina moderna supporta molto i suoi artisti e questa è una cosa che all'Italia manca del tutto. Non esiste supporto governativo in Italia, al contrario - senza andare lontano - dei Paesi dell'Europa più civile. Inoltre c'è un forte senso di identità culturale che l'Italia invece tira fuori solo nei momenti sbagliati».
Shanghai e la concessione francese, le epoche arcaico-tradizionali, le chat: romantica o digitale la tua Cina? È un Paese-imitazione o è ancora se stessa?
«La purezza di Shanghai è la purezza della finzione: il lato marcescente, organico della vita viene rimosso. Dunque è come stare in un set cinematografico, o in un sogno. E Shanghai è splendidamente se stessa: il suo mischiarsi sincreticamente a tutto fa parte da sempre della sua identità. Non era diverso, ad esempio, negli anni '30. Dunque è una città di finzioni, sì, ma che si legano a un temperamento camaleontico che le sa integrare al suo fulcro cinese».
C'è molto erotismo nel romanzo, anche estremo. Cos'è l'erotismo per la tua scrittura e per la tua generazione?
«Non so molto della mia generazione. L'eros che mi interessa nella letteratura è quello che erode il linguaggio. Quasi un rituale sciamanico. Nella vita invece per me non esiste l'amore di un corpo senza l'amore del cervello».
Nei tuoi titoli precedenti hai affrontato il tema dell'identità e del linguaggio. Anche in Fame blu ti schieri?
«Identità e linguaggio sono le mie due ossessioni narrative. In ogni libro la riflessione prende una piega diversa. Stavolta volevo indagare il modo in cui l'estraneità di un luogo, la Cina, e di una lingua, il cinese, agisse sull'identità di una persona in lutto, e dunque in un momento fragile di transizione di sé. Anche l'amore nel romanzo ha uno scopo trasformativo rispetto alle identità delle due ragazze».
Torna in libreria Settanta acrilico trenta lana: che cosa è cambiato da quando sei stata la più giovane finalista allo Strega?
«Credo che l'unica cosa che non cambi di una persona a distanza di dieci anni sono le orecchie.
Per il resto tutto - dalle proporzioni del viso alle idiosincrasie al modo di affrontare la vita - cambia completamente. Forse mi preferivo prima: ero più istintiva, più immersa nelle cose. Ora vivo lontana da tutto, come un'eremita dentro il mondo. Abito a Londra, ma è come se fluttuassi nella materia oscura».
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