«Simbolico, relazionale, partecipato, territoriale, resiliente, fluido e multicanale»: le parole chiave del cibo del futuro sembrano scritte per farmi passare l'appetito.
A parte «simbolico» e «territoriale», aggettivi che non scarto ma che trovo comunque un po' pesanti, gli altri formano una mappazza lessicale tendente all'ideologico e scatenante, in me, non so in voi, repulsione e rigurgito. Le ho trovate in un libro collettivo ammannito dall'editore Carocci, intitolato per l'appunto Il cibo nel futuro e sottotitolato «Produzione, consumo e socialità», con l'ultimo ingrediente che si combina coi succitati «relazionale» e «partecipato» in una zuppa dal forte retrogusto politico, non propriamente liberale. E io che volevo soltanto sapere cosa si mangerà domani...
Gli autori sono docenti, professori e ricercatori dell'Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, in Piemonte, l'ateneo di Slow Food. Nel volume i tic dell'associazione mangereccia fondata da Carlo Petrini ci sono all'incirca tutti, a cominciare dall'indigesta anglofonia. Gliel'ho sempre rinfacciata al Fondatore, anche in pubblico, la contraddizione del contrapporsi al cibo multinazionale e antitradizionale usando la lingua globale e antitradizionale per eccellenza: l'inglese. Dunque tocca leggere innumerevoli volte «food», con derivati quali «fusion food», «food design», «food policy»... Dovrebbe bastare questo per farvi capire che sulle tavole del futuro non c'è posto per la cassoeula, la tiella o i casonsei, piatti obsoleti come i dialetti che li hanno battezzati. «Dopo aver conosciuto la propria tradizione culinaria, le proprie origini e identità, si vogliono conoscere le altre tradizioni alimentari» scrive a pagina 21 un accademico più ottimista del Candido di Voltaire. Come se i ragazzi, prima di ingozzarsi di kebab, e le signorine, prima di tuffarsi nel sushi, avessero assaggiato l'anguilla in tutti i diciassette modi catalogati da Anna Gosetti della Salda in Le ricette regionali italiane: anguilla alla brace, anguilla alla comacchiese, anguilla alla fiorentina, anguilla alla gardesana, anguilla in padella... Correva l'anno di grazia 1967 e la cucina era territoriale davvero. Facile previsione dei futurologi di Pollenzo è un cibo sempre più «multietnico, composto dall'incontro e dalla miscela di tradizioni gastronomiche diverse». Peccato che in questa ammucchiata di popoli ad avere la peggio sia l'etnia dei nativi: mica facile mangiare milanese a Milano, e provateci voi a mangiare pugliese a Trani (se in un ristorante con vista sulla Cattedrale, o anche senza vista, siete capaci di trovare le braciole di cavallo avvisatemi, mi raccomando).
A Slow Food l'estinzione della cucina locale è passata inosservata, non se ne sono accorti, devono avere gli occhi coperti dai capponi di Morozzo, o dai cavolfiori di Moncalieri. Spignattate in queste 142 pagine sono, degli italiani a tavola, le magnifiche sorti e progressive. Vi si legge di «maggiore consapevolezza dei consumatori», di «libertà di scelta gastronomica», di «superamento delle disuguaglianze a livello alimentare»... Quindi mangeremo tutti ostriche l'anno prossimo? Oppure foie gras? Temo di no, vista la tendenza «vegan/vegetarian-friendly». Non vorrei che il superamento delle disuguaglianze si realizzasse in discesa e che con la scusa del «sostenibile» (altra parola-prezzemolo) ci fosse per tutti, nel famoso futuro, la stessa bistecca di soia. O lo stesso snack a base di insetti, visto che coleotteri e lepidotteri «non inquinano l'ambiente e non necessitano di grandi terreni». Certo, fanno ancora un po' impressione ma se si smetterà di chiamarli bruchi e scorpioni e si imporrà il termine «novel food» ecco che i pregiudizi cadranno. Potenza della lingua di Shakespeare e di Gordon Ramsay!
Per accelerare lo svecchiamento gastronomico è venuta buona anche la pandemia. I professori di Pollenzo sembrano pensarla come il ministro di Potenza, Roberto Speranza: il virus come «opportunità unica».
Perché durante la quarantena si sono sviluppate «prassi innovative», grazie al «maggior tempo libero» si è visto un «ritrovato interesse degli italiani per il cucinare» e insomma «si è passati da un'attenzione al cibo molto mediatica, spettacolare e superficiale a un coinvolgimento nel mondo del food maturo e responsabile». Vedete quante cose belle ha portato la chiusura dei ristoranti? Senza coprifuoco come saremmo potuti diventare buongustai maturi e responsabili?
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