Quando ho preso in mano il tomo di un accademico fra i massimi esperti di Dante, Giulio Ferroni, L'Italia di Dante - Viaggio nel paese della Commedia (La Nave di Teseo, pagg. 1.234, euro 30) ho mentalmente reso grazie ad Aurora, la sfolgorante allenatrice della palestra, per avermi così tanto incalzato negli ultimi mesi. Mi ha reso capace non solo di aprirlo, ma anche di spostarlo qua e là per la scrivania.
Ammetto che in un primo tempo avevo temuto la mattonata sulle gonadi, poi mi sono immerso nella lettura e ho cambiato idea, a tu per tu con quello che, credo, sia stato lo spirito dell'impresa: aiutarci a rileggere la Divina Commedia attraverso i luoghi geografici evocati da Dante, e poi mettendone il testo a confronto con l'oggi, giocando a ping pong con i segni del paesaggio com'erano e come li vedeva il poeta e come sono adesso, visti da Ferroni.
In settecento anni e con l'unificazione dell'Italia in un solo Stato dotato di una lingua nazionale ormai unica, che pure ha in comune con l'allora vulgaris eloquentia decine di migliaia di termini, non solo lo scenario, ma anche il modo di descriverlo è cambiato.
Essendo il libro un diario così corposo su viaggi e spostamenti compiuti da Ferroni nel corso degli anni 2014, 2015, 2016, e per quanto ordinato in ordine cronologico, può essere divertente da consultare anche saltando di qua e di là, o andando a cercare i posti che già si conoscono, giusto per metterli a confronto con la versione ferroniana, oppure lasciandosi semplicemente incuriosire dalla forza evocativa dei toponimi. Eccone qualcuno preso a caso fra migliaia: Pomarance, Pietramala, Diamante, Fluminimaggiore, Zappolino. Solo a leggerli, vien voglia di andarci.
La ricchezza storico-artistica-culturale e paesaggistica del nostro Paese è capillarmente dissezionata in questa Baedeker densa di particolari, di aneddoti, di considerazioni anche personali dell'autore. Il tutto in equilibrio «tra persistenti tracce di ciò che era allora e segni di tutto ciò che è passato su di essi nel tempo».
Un esempio che riguarda da vicino chi scrive: a Biella in tutte le scuole si studia la vicenda di fra Dolcino, l'eretico a capo della setta degli Apostolici, citato nel Ventottesimo canto dell'Inferno. Molti fatti sono avvenuti lì vicino, in luoghi che tutti i biellesi conoscono, la Valsessera, Trivero, la panoramica Zegna, Còggiola. Un posto reale è sempre qualcosa di più e di meno di come lo si immagina tra le pagine di un libro, nelle quali di solito lo si idealizza. Il monte Rubello, dove Dolcino e la sua amante Margherita furono catturati nel 1307 per poi essere suppliziati in modi alquanto orrendi, è ancora lì da vedere, insieme alla rielaborazione del rifugio che li ospitò. Non una vetta imprendibile, se perfino Maometto nell'Inferno avverte fra Dolcino di sbrigarsi a rompere l'assedio.
Tutti noi italiani siamo passati migliaia di volte nei luoghi che hanno a che fare con quanto sapeva e ci raccontava padre Dante. Con il suo diario di viaggio lo studioso perciò compie due operazioni: ci fa ripassare la storia e ci riporta alla geografia presente. Anzi, alla società. Per dire, nei luoghi dove spadroneggiava l'Ezzelino da Romano evocato da Cunizza nel Nono canto del Paradiso, oggi campeggiano scritte come «Sud=zavorra».
E Firenze? La città che «seco mi tenne in la vita serena», dice Dante nel Sesto canto dell'Inferno, quella verso cui ha sentimenti contrastanti e l'amarezza di un amante esiliato. La città «piena d'invidia sì che già trabocca il sacco», è oggi soffocata dalle gabbie turistiche, ma è pur sempre la città del Battistero (l'antico «Batisteo» ricordato da Cacciaguida nel Paradiso), il cuore medievale di un nucleo urbano pronto per il suo epocale Rinascimento.
Come si fa a non essere d'accordo con Ferroni quando sostiene che «tornare a Dante è anche un po' sfuggire all'inessenzialità e all'inconsistenza di tanta letteratura di oggi, alla sua subalternità al mercato, ai modelli mediatici»? Dante, fondando una lingua letteraria, definisce anche i confini della nazione che l'Italia è divenuta poi, nella sua «turbinosa consistenza linguistica, geografica, politica, morale». Insomma ci fa ripensare a quanto è grande questa nostra piccola Italia, e alla concretezza, alla tangibilità del territorio, altro che mappe di Google, altro che occhi satellitari che rendono tutto astratto, uniforme, illusorio, altro che navigatori che segnalano strade, e non panorami. Se il tempo è passato e la velocità è aumentata, non per questo lo spazio si è ridotto. Questo libro così on the road fa venire voglia di rileggere Dante. Fra l'altro per una felice coincidenza mi capita sotto mano uno strano libro, davvero sorprendente, Dante, Commedia. Una decodifica in prosa narrativa fatta da Alessandro Nava (Manzoni editore, pagg. 500, euro 30), una traduzione dell'intera Commedia nell'italiano di oggi, senza note, come fosse un romanzo. Appassionante. Permette di rendersi conto di quanto questo capolavoro sia fluido, quanto divertente, quanto vicino a noi.
Chi crede nelle giornate di (memoria, donne, terra, vita, pace e via dicendo, non si salva più una casella del calendario) avrà da quest'anno anche la possibilità di concentrarsi sul Dantedì, il prossimo 25 marzo. Fra le tante celebrazioni della giornata di Dante alcune sanno di rancido accademismo, o di chiacchiere in libertà, come succede quasi sempre in questi casi, ma altre si salveranno, soprattutto quelle legate al territorio. Nel libro si avverte molto, fra l'altro, il senso della resistenza delle culture locali, dei campanilismi, dei particolarismi, oggi più che mai in un mondo forse solo apparentemente dominato dalla lingua comune, più o meno fluida, più o meno gergale, della rete.
Solo un italianista in fondo può permettersi di spiegarci la geografia dell'Italia.
Una geografia che il poeta toscano conosceva bene, in un tempo in cui le mappe erano già accurate e la toponomastica non troppo lontana dall'origine etimologica. La conosceva sia per esperienza personale, sia per studio, sia per virtù della sua immaginazione strepitosa.La Commedia, dopotutto, è il viaggio per eccellenza.
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