La libertà di stampa è il cassetto della biancheria rovesciato sul pavimento. È l’agente in divisa che fruga tra i giocattoli di tuo figlio. È il guanto di lattice agitato per minacciare un’ispezione corporale. Elementare la professione del giornalista, si tratta «solo» di cercare e pubblicare notizie. A patto di non toccare i fili. Allora scrivere si trasforma in un’avventura, in certi casi in disavventure. È nitido l’affresco che emerge dal quaderno dell’Ordine dei giornalisti Le mani nel cassetto - (e talvolta anche addosso). I giornalisti perquisiti raccontano. Chi dà fastidio ai poteri forti finisce nella rete, da Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera a Emiliano Fittipaldi dell’Espresso. Tante le firme del Giornale: forse un quotidiano un po’ più uguale (cioè più scomodo) degli altri, visto che nel libro torna almeno cinque volte nei racconti in prima persona di Vittorio Feltri, Nicola Porro, Gian Marco Chiocci, Anna Maria Greco e Stefano Zurlo.
Il Grande fratello giudiziario si materializza in via Negri 4 nel settembre 2010. Ricorda Feltri: «Un imprecisato numero di militari irruppe negli uffici del Giornale su mandato della Procura di Napoli. Cercava un dossier sulla Marcegaglia, presidente di Confindustria». Ma «si dà il caso che Porro fosse stato indebitamente intercettato. La sua conversazione con il collaboratore della Marcegaglia era stata interpretata non già come un cazzeggio tra amici, bensì quale minaccia alla presidente. Sicché la Procura di Napoli era partita lancia in resta contro la supposta macchina del fango da me diretta. (...) Non venni nemmeno interrogato. Perquisito anche Nicola Porro. Fisicamente. Carabinieri dappertutto: al Giornale e nelle abitazioni dei reprobi. Roba da matti. Ventiquattr’ore dopo pubblicammo davvero un dossier sulla Marcegaglia: si trattava di una raccolta di servizi denigratori sulla famiglia Marcegaglia recuperati in archivio; tutti pubblicati su impeccabili quotidiani e settimanali progressisti. Dell’inchiesta - conclude Feltri - non s’è saputo più niente».
Quella mattina d’inizio autunno la ripercorre lo stesso Porro: «Una dozzina di carabinieri vengono a trovarti nei due tre posti dove hai messo piede e frugano dappertutto (...). Prendono in consegna i tuoi computer, e per sovra mercato anche quelli non tuoi: mio padre, mia madre, e mia moglie sono stati un paio di mesetti senza pc. E poi, alla ricerca di prove, non si fanno negare nulla: dal portafoglio, alla doccia che non può essere fatta dal sospettato se non in compagnia». La morale è immediata. «Intercettateci tutti, perquisiteci tutti, indagateci tutti. Sì buonanotte. In un mondo perfetto. A casa nostra - osserva Porro -, un giornalista che venga perquisito si trova nudo di fronte a una dozzina di carabinieri o poliziotti che hanno il mandato di comportarsi con le stesse procedure che adotterebbero di fronte a Totò Riina».
Il Giornale, si diceva, per i pm è un posto dove andar a ficcare il naso alla ricerca di chissà quali comportamenti illeciti. L’inviato Gian Marco Chiocci lo sa bene. La prima e l’ultima volta gli è toccata per questioni di... case, dall’inchiesta su Affittopoli nella metà degli anni Novanta al recentissimo scoop sull’appartamento di Montecarlo. «Mi è costato una perquisizione in albergo, due interrogatori a distanza di poche ore, foto-segnalamento nella caserma della polizia monegasca con invito a lasciare immediatamente il Principato...». All’estero o a Roma, il trauma è lo stesso. Pochi mesi fa se n’è resa conto la nostra cronista Anna Maria Greco. «Da me cercavano gli atti di un vecchio procedimento disciplinare del Csm nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini. Ne avevo scritto sul Giornale il 27 gennaio 2011 e quella, evidentemente, era la mia colpa grave. Mi hanno detto che dovevano procedere alla perquisizione personale. Non volevo capire, ma mi sono preoccupata seriamente quando la donna carabiniere ha infilato i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in bagno e mi ha detto di spogliarmi. “Anche la biancheria intima”, ha precisato. Non volevo crederci...». Ma i danni maggiori li senti a «controllo» passato. Testimonia la Greco: «Molti di quelli che prima mi parlavano liberamente, ora non rispondono nemmeno più al cellulare; c’è chi si preoccupa se mi incontra e addirittura finge di non conoscermi».
Delle toghe di Milano è anche la regia del blitz a casa di Stefano Zurlo, il 28 settembre 1996. «La perquisizione fu ordinata da Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, due celebri pm del Pool, anche se Mani pulite è finita da un pezzo. A mio figlio Giacomo, 4 anni, qualcuno in un impeto di zelo chiede: “Papà dove nasconde le carte?”». La pena per lesa maestà.
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