A poche ore dalla notizia della scomparsa di Paolo Rossi, Giovanni Trapattoni che lo ebbe con sé alla Juventus ha twittato parole pregne di profonda emozione: «Ciao Paolo. I giocatori non dovrebbero andarsene prima degli allenatori». Frase in cui si sente vivo il dolore del padre davanti alla mancanza del figlio e che fa tornare alla mente Bearzot piegato dallo strazio per la perdita di Gaetano Scirea, oltre trent'anni fa.
Raggiunto al telefono Francesco Alberoni, pur premettendo di non essere uomo di sport, ci regala un'interpretazione molto forte di questo nuovo lutto che ci toglie uno dei personaggi più rappresentativi dell'epoca dei nostri vent'anni.
Professor Alberoni, c'è qualcosa di terribile, di contronatura, per un padre, nell'assistere alla morte del figlio, qualcosa che la vita non dovrebbe tollerare. La cultura, la filosofia, che spiegazione si danno?
«Padre e figlio certo, ma anche maestro e allievo. Nel caso del padre entra in gioco una dimensione emotiva terribile, la perdita è terrificante perché muore una parte di te, stronca la tua vita, non sei più vivo come prima e sopravvivi annientato. Il maestro, invece, pensa come uno scienziato e desidera la sopravvivenza dell'allievo in modo che ne continui l'opera, la ricerca e ne prolunghi la vita nel futuro. Fu il caso di Socrate e Platone, senza l'allievo non avremmo conosciuto il maestro, ma non si esclude l'opzione opposta, quella di Salieri versus Mozart, che dell'allievo più bravo era invidioso. Si tratta di un'eccezione perché nella tradizione accademica europea l'allievo nutre affetto, oltre che rispetto, per il proprio maestro».
Si dice che lo sport sia tra le più riuscite metafore dell'esistenza. Si cresce, si lavora, si vince e poi si scivola via. A un certo punto accade qualcosa, una contraddizione tra l'eroe del calcio, così forte e giovane, e l'uomo fragile che si ammala, invecchia, soffre e muore. Sembra impossibile ma a un certo punto accade.
«L'eroe muore. Muoiono Achille, Ettore, Ercole tra sofferenze atroci che egli stesso pretese. L'eroe è delicato, nella nostra cultura si identifica con Cristo, l'eroe per eccellenza che muore giovane e martire. Come Gilgamesh, come Sigfrido, eroi che sembrano immortali poi si rivelano fragili. Ecco dunque l'identificazione con il martire, colui che combatte per difenderci e muore in guerra, agli eroi infatti si conferisce la medaglia al valore dopo la morte. Parlando di lui si dice che era bello, bravo, giovane. Ci si ricorda della sua giovinezza e la nostra memoria di Paolo Rossi va agli anni dei mondiali, di quando era un ragazzo. Non se ne è sovrapposta un'altra».
Pochi giorni fa è scomparso Diego Maradona, un personaggio completamente diverso, un campione straordinario dai molti lati oscuri, non certo un modello da imitare in toto eppure esaltato dall'opinione pubblica in maniera spesso acritica. Con Paolo Rossi, campione del mondo nel 1982, pienamente identificato nella Nazionale e non in un club, se ne è andato l'uomo comune, normale fin dal nome e cognome, il signor Rossi inventato da Bruno Bozzetto. Due addii alla terra davvero differenti
«Maradona non è stato un eroe ma una celebrità, ricco di fascino, grandezza, ambizione sconfinata che ha suscitato invidia per il suo immenso potere, come Gengis Khan, Casanova o Benvenuto Cellini. L'ubermensch nicciano che si può permettere di tutto proprio perché oltre.
Paolo Rossi invece era l'eroe puro che, come Orazio Coclite, ha affrontato il nemico nel periodo che il destino gli diede sconfiggendo gli Etruschi da solo, un cavaliere senza macchia e paura, una folgore di guerra con una forte componente umana che appare e scompare, vince e se ne va senza chiedere nulla».
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