Il mondiale.
Non soltanto le partite, il gioco, i gol, le parate, la terribile canicola. Il mondiale con Giovanni Arpino e Gianni Brera, il mondiale con Beppe Viola e Mario Soldati. Maestri, colleghi, amici, compagni di viaggio e avventura, ascoltando parole e racconti mille, sfide improbabili alle carte, settebello e primiera, le ceneri del sigaro bruciavano quotidianamente gli zebedei di Soldati, il ghigno di Brera lo stuzzicava deridendolo, Arpino osservava, come un monumento, stringendo tra le labbra un bocchino di madreperla, il trigemino, il suo tormento malvagio. Beppe, con gli occhi arrossati, riandava alle serate da Gattullo, il bar ritrovo notturno di Porta Lodovica. Attorno c'era Madrid, c'era Spagna, l'aria dell'attesa, usmavi sentori di crauti e salamelle, i tedeschi in marcia verso Chamartin, il quartiere del Bernabeu, Alduccio preparava i tavoli del suo ristorante italiano a fianco dello stadio, nessuno immaginava la festa, i tuffi nelle fontane, lo sventolare di tricolori, pensavamo però malignamente ai supplementari contro la Francia che avevano sfiancato le sturmtruppen di Rummenigge.
Apparve Gianni Agnelli «Sono venuto a incontrare i nostri», la sua mezza dozzina di juventini, c'era Pertini, c'era il re Juan Carlos, c'era Helmut Schimdt, primo ministro di Germania al quale non fregava assolutamente nulla di fussball e di die mannschaft, preferendo Mozart e Bach, nessuna idea di telefoni cellulari, nemmeno di computer, andavamo di taccuini e penne bic, martellavamo i tasti delle Olivetti, dettavamo articoli ai dimafonisti, anime garbate e pazienti. Era un altro mondo. Fu un altro mondiale. Grazie Giovanni, grazie Gianni, grazie Mario, grazie Beppe. Grazie azzurri. Una fetta di vita lontana. Quarant'anni dopo.
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