Partenza con due bugie. «La corsa più dura del mondo nel Paese più bello del mondo», come da famoso slogan pubblicitario, non parte nel Paese più bello del mondo e presenta una durezza tutta da ridere. Tutto si può dire della Danimarca, non che sia il Paese più bello del mondo - definiamolo carino, è l'aggettivo suo - e men che meno ciclisticamente proibitivo: le asperità più vertiginose restano i ponti mozzafiato tra le diverse aree del Paese. Ma per fare cassa (due milioni di euro), per crearsi un fascino oltre confine, il Giro non esita a buttare nel mare del Nord il suo marchio, il suo stile, la sua fama di corsa crudele lungo gli impareggiabili scenari nostri: gli affari sono affari, il marketing è marketing.
Non c'è niente di che scandalizzarsi, pure il Tour ormai fa del nomadismo il suo punto di partenza. Oltre tutto, non è chiaramente nelle prime tre tappe che una corsa deve dimostrare la sua durezza. Ci mancherebbe pure. E' dopo. E purtroppo è proprio lì, nelle prossime tre settimane, che l'edizione 2012 rinnega davvero se stessa, con un percorso lontanissimo parente, neppure cugino di secondo grado, della "corsa più dura del mondo". La scelta è questa, fine delle discussioni. Ci raccontano che ne guadagneranno l'equilibrio e lo spettacolo, ma su questo è meglio aspettare con prudenza la prova dei fatti. C'è tutto il tempo per parlare di spettacolo: strada facendo, con le chiacchiere a zero.
Cronoprologo per superspecialisti nella leggiadra e ubertosa Herning, cittadina votata al tessile e alla birra (la prima è un'esclusiva locale, la seconda chiaramente no). Il clima è fresco, l'eccitazione alle stelle: per la presentazione delle squadre nelle vie del centro, folla da ricorrenza nazionale. Non è quest'oggi che vedremo ai vertici i signori dell'alta classifica. Crono così corte (8,7 chilometri) sono affare per gente particolare, abituata all'apnea. I Basso, gli Schleck, i Kreuziger, i Rodriguez, gli Scarponi, i Cunego, cercheranno solo di lanciarsi qualche segnale reciproco, chi guadagnando qualcosa sugli altri (Kreuziger), chi cercando di non perdere troppo (Basso), chi mettendo subito in chiaro certe questioni domestiche. Quest'ultimo riferimento è tutto rivolto al pittoresco, eccentrico, magari geniale, però anche molto esplosivo matrimonio imposto da Beppe Saronni, cervello della Lampre, che ha messo accanto a Scarponi, vincitore dell'ultimo Giro per la squalifica di Contador, un certo signor Cunego. Un corridore fortissimo accanto a un corridore fortissimo, nel ciclismo, non è mai una somma aritmetica. Anziché raddoppiare la forza d'urto, può tramutarsi in un pauroso spappolamento. Perché la scelta di Saronni? Perché Scarponi non gli dà garanzie al cento per cento, perché Cunego invece esce da una bella primavera. Il mister vuole tutelarsi con due soluzioni d'attacco, direbbero nel calcio. Ma in casa Scarponi il clima non è idilliaco come ufficialmente si cerca di raccontare. Scarponi ha accolto Cunego con l'entusiasmo riservato agli esattori di Equitalia. Voleva una squadra tutta per sé, così non la sente tutta per sé. Di più: lui, come tutta Italia, ricorda benissimo che Cunego ha vinto il suo Giro in giovane età (2004) sfasciando il suo primo matrimonio, con il famoso Gibo Simoni. Quella volta, nella tappa finale di Bormio, il vecchio leader sconfitto non esitò a ricoprirlo di epiteti direttamente sulla linea del traguardo.
Dunque si comincia così, esportando in territorio straniero una delle griffe più radicate del made in Italy: la rivalità interna, l'intrigo di famiglia, il gioco delle alleanze e dei tradimenti. Dice Cunego: «Se cominciamo così, non andiamo da nessuna parte. La nostra forza dev'essere l'unità di squadra. Poi, strada facendo, sarà la corsa a chiarire tutto».
Quante volte abbiamo sentito queste frasi esemplari, quante volte le abbiamo viste bellamente disattese. La storia del Giro è piena zeppa di queste grandi storie.
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