La pioggia scalfisce da giorni i tetti delle case di Tokyo. La città è ridotta ad un’immensa pozzanghera. Figurarsi lo stadio Olimpico: quello è un bacile che cinge un campo zuppo. Si discute a lungo se non sia il caso di rimandare la partita, perché quella poltiglia rischia di sfaldare lo spettacolo. Stormi di esperti botanici saggiano il terreno, tentano il rimbalzo e poi emettono l’inappellabile sentenza, che è un calcio alle frivolezze: c’è di peggio, si gioca. Nella testa del ragazzo francese anche i pensieri adesso si asciugano.
Argentinos Juniors–Juventus è la contesa tra due mondi. Da un lato il calcio ruvido, ma venato dall’estro debordante dei singoli, degli sfidanti sudamericani. Hanno addomesticato l’América de Cali ai rigori, sollevando la Copa Libertadores. Dall’altro la corazzata del vecchio continente, una Signora attempata eppure energica che piazza con discreta disinvoltura i gomiti tra le costole del calcio mondiale. Certo, più facile se in squadra spuntano Michael Laudrup, Scirea, Mauro, Cabrini e Tacconi. Più agile, specialmente, se al timone c’è il Trap e per il campo svolazza quel trentenne francese con il dieci sulla schiena.
Michel Platini è stato protagonista anche qualche mese fa, ma il (non) rigore decisivo segnato contro il Liverpool è un colpo che sfuma nel lacerante ricordo dell’Heysel. Non esiste un tasto interiore che ti consente di resettare. Il macigno è sempre conficcato all’altezza dello sterno, a bloccare il respiro. Eppure la vita, che non prevede resi per le sciagure distribuite, chiede di cederle il passo. Così si gioca. La Coppa intercontinentale, all’epoca chiamata anche Toyota Cup, è in fondo la Cassazione calcistica. Certifica la grandezza acquisita senza entrare nel merito: le è sufficiente la forma che assumi in novanta più recupero.
Quegli altri comunque non sono degli sprovveduti. In mezzo comanda Sergio Batista. Davanti si teme l’insolente verve di Claudio Borghi, l’indio che sussurra ai palloni. Il resto della cricca ha inciso dentro un calcio ancestrale e sfibrante: sanno contrastare e ricamare. Tipico degli argentini. Non a caso passano loro in vantaggio. Dopo un primo tempo di galleggiamento reciproco, Ereros buca la noia con un pallonetto che infila Tacconi. Laudrup pareggia prontamente, ma è in fuorigioco. È Platini a rimetterla sull’1-1, trasformando poco dopo un penalty con glaciale confidenza.
Poi scocca il minuto 68. Corner calciato da Mauro. Difesa argentina che impenna altrove il pallone, ma Bonini lo spinge di nuovo vero l’area. Qui si consuma il pezzo di prestigio. Platini stoppa di petto al volo, manda al cinema Pavoni con un sombrero di destro e calcia al volo di sinistro. È un tracciante inarrivabile per il tapino Vidallé. Le Roi corre festante verso il centro del campo. Il Trap sgrana quei fanali celesti. I compagni lo impacchettano dentro un abbraccio sapido. La felicità però è un arnese fragile. A mandarlo in frantumi ci pensa, con sprezzante sicumera, l’arbitro Volker Roth.
Snobista e tracotante, fischia un calcio di punizione per gli argentini. Fuorigioco di Brio, pare. Oppure un fallo, non si è ancora capito bene. Un’invenzione con gli ammennicoli. Una fregatura monumentale. Michel lo contempla per un istante, trasecolato. Prima si rifiuta di crederci, poi si accascia per terra, la mano sinistra a sorreggere la nuca. Pare una di quelle ragazze francesi in posa sul divanetto di stoffa, nella mansarda del pittore. Solo che le pennellate qui erano tutte sue. La faccia è quella di chi si sente talmente afflitto e depredato da essere colto da riso isterico.
La risolverà comunque lui,
segnando il rigore decisivo, ancora una volta. Ma di quella notte umida resterà, imperterrito, il ricordo di un gol che forse aveva su impresso il destino inafferrabile delle cose migliori. Splendere molto, durare pochissimo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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