Il talento dell'Italrugby dice addio all'azzurro: "Nella bolla non entro"

Minozzi, a pochi giorni dal 6 Nazioni: "Due mesia a far camera, pullman, campo? Darei di matto..."

Il talento dell'Italrugby dice addio all'azzurro: "Nella bolla non entro"

E alla fine c'è quello che scoppia. Che non ce la fa più. Che si chiama fuori. Era inevitabile che dal mondo dorato delle bolle, microcosmi sparsi nel mondo dove migliaia di atleti vivono da mesi al riparo (assai parziale, a dire il vero) delle insidie del virus, qualcuno alla fine dicesse: scusate, ma non me la sento, esco dalla bolla. Meno scontato era che a fare il passo indietro fosse un rugbista, lo sport dei duri per eccellenza. Ma ancora meno scontato è che il primo a mostrare allo scoperto la sua fragilità, a raccontare i patemi nascosti dietro i pettorali, venga ora sommerso di attacchi e di insulti, dipinto sui social come un bambino viziato o un traditore della patria.

Matteo Minozzi ha ventiquattro anni, ed è il talento più scintillante prodotto in questi anni dal rugby italiano. Un folletto da un metro e settanta, un pazzo pronto a infilarsi a quaranta all'ora nel cemento dei raggruppamenti. Non si può dire che gli manchi lo spirito di sacrificio, in ottobre durante Italia-Inghilterra del 6 Nazioni una craniata inglese gli sfonda il naso, le immagini sono splatter, ma al turno successivo contro l'Irlanda è di nuovo in campo. Ma non è più lui, come non lo è dall'inizio del torneo, quando aveva avvisato il tecnico Franco Smith: «Coach se mi vuoi ci sono, ma guarda che sono al sessanta per cento. Se non mi convochi non mi offendo». Agli amici confida: «Quando corro mi sento cento chili addosso». A novembre la Nazionale lo riconvoca per l'Autumn Cup, Minozzi risponde alla chiamata, gioca, segna. Ma si vede che non va. Il 60 per cento è diventato il cinquanta, il quaranta.

Quattro giorni fa Minozzi getta la spugna. Al 6 Nazioni di quest'anno, che comincia tra otto giorni contro la Francia, lui non ci sarà. È il torneo simbolo della pallaovale europea, la trincea in cui - a dispetto delle sconfitte a ripetizione - ogni rugbista italiano vorrebbe battersi. Lui però salta un giro. Non gli fanno paura le botte. Gli fa paura la bolla. L'idea di chiudersi due mesi in un albergo di Roma, col resto della squadra, uscendo solo per andare ad allenarsi all'Acqua Acetosa. «Camera, pullman, campo, pullman, camera. Nient'altro, per due mesi di fila. Roba da dar fuori di matto», spiega agli amici. Nel post non si nasconde dietro un dito: «Sono stanco fisicamente e mentalmente, troppo per vivere altri due mesi in una bolla».

È una confessione, l'atto di coraggio di un ragazzo che alza il velo sul clima irreale di questi ritiri senza fine, sulle giornate tutte uguali, sul rito dei tamponi, sulle nevrosi in agguato. Eppure su Minozzi piove addosso di tutto, «uno schiaffo a tutti i ragazzi che si fanno il mazzo per emergere», «ma vai a lavorare in fabbrica imbecille», «credevo che fossi un campione». Ad aggravare le accuse, il fatto che Matteo continui a giocare in Inghilterra col suo club, i Wasps.

Ma lì la vita è diversa, c'è la ragazza che l'ha seguito, si esce a fare la spesa, la clubhouse: non c'è solo il percorso da criceto dall'hotel al campo, la prigione dorata che ti logora i nervi anche se di panca alzi novanta chili e in campo placchi alle caviglie gente alta due metri. Matteo la conosce, quella gabbia, l'ha già vissuta, l'ha sopportata. Stavolta l'ha guardata e ha detto: «Scusate, io non entro».

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