Quel ritorno (dimenticato) di Fiume all'Italia

Intervista a Marino Micich, storico e direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume e della Società Studi Fiumani

Quel ritorno (dimenticato) di Fiume all'Italia

Nel 1924 Fiume tornava all’Italia. Un momento storico fondamentale, purtroppo passato sotto silenzio. Ne abbiamo parlato con Marino Micich, storico e direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume e della Società Studi Fiumani.

Partiamo dalla fine: da quando l’Italia perde Fiume.

La città di Fiume, che si trova in fondo al Golfo del Quarnaro, dopo la Seconda guerra mondiale fu ceduta dall’Italia alla Jugoslavia di Josip Broz Tito insieme alla città dalmata di Zara, all’Istria e al territorio dell’alto isontino-goriziano. Fiume fu occupata il 3 maggio del 1945 da reparti della IV Armata popolare jugoslava, due giorni dopo l’occupazione titina di Trieste avvenuta il 1° maggio del 1945. A Fiume, come in tutta le città della Venezia Giulia e della Dalmazia, subito dopo l’arrivo delle forze armate jugoslave, la polizia segreta dell’Ozna (Sezione della difesa del popolo) iniziò la persecuzione degli italiani con l’accusa generica di fascismo e di essere nemici del popolo. Dopodiché vennero uccisi, senza processo, oltre 600 fiumani nel giro di due mesi dopo essere stati arrestati dall’Ozna. Non solo avvenne la distruzione fisica di tanti italiani, ma il regime comunista jugoslavo di Tito iniziò parallelamente a gettare le premesse per l’esodo epocale di ben 40mila italiani. Alla fine rimasero in città solo 4mila italiani. Fiume, dopo secoli di vita, perse così la sua componente italiana a favore delle etnie jugoslave. Il nuovo governo comunista creò in questo modo le basi per la nuova Fiume o meglio Rijeka, cancellando nel giro di pochissimi anni la vera anima di una città secolare.

Come si era formata quest’anima così particolare?

La città di Fiume fu la diretta conseguenza dell’antica Tarsatica romana e, sin dall’epoca medievale, poteva considerarsi uno dei tanti comuni italici presenti lungo la costa adriatica orientale. A differenza delle città istriane e dalmate passate gradualmente tra il XIV e il XVI secolo sotto la Repubblica di Venezia, Fiume, con Trieste, divenne dal XVI secolo in poi dominio degli Asburgo d’Austria, ma le peculiarità identitarie di carattere italiano di queste città furono sempre riconosciute dal governo di Vienna tanto da vedersi riconosciuti propri statuti comunali e quindi una propria autonomia. Grazie alle autonomie, i fiumani arrivarono a concepire l’idea di poter essere un Corpus Separatum nell’ambito dell’Impero asburgico e tale status giuridico fu codificato nel 1779 dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa. La lingua italiana fu la lingua ufficialmente riconosciuta nei documenti assieme a quella austriaca e poi ungherese. Al di là di un periodo in cui la città passò sotto l’amministrazione croata (1848-1867), l’italianità dei fiumani fu sempre viva e si riaffermò dal 1868 in poi. Nel 1895 venne riconosciuto il Partito autonomo e con questa peculiarità Fiume si presentava allo scoppio della Prima guerra mondiale.

Di lì a poco, però, Fiume sarebbe diventata italiana…

L’Italia esce vincitrice nella Prima guerra mondiale contro l’Austria-Ungheria e ancora prima della firma dell’Armistizio a Villa Giusti del 3 novembre 1918, il 30 ottobre il Consiglio Nazionale Italiano di Fiume emette il Proclama col quale gli italiani di Fiume chiedono “l’annessione alla madre patria l’Italia”, basandosi sul principio di autodeterminazione dei popoli sostenuto dal presidente americano J. Woodraw Wilson. Il proclama degli italiani di Fiume andava contro alcune clausole del Patto segreto di Londra col quale l’Italia entrò in guerra nel maggio 1915. Stringendo l’accordo con gli inglesi e francesi l’Italia aveva chiesto in caso di vittoria la sovranità su Trieste, Gorizia, l’Istria, Zara e altre località dalmate, ma non Fiume. La città quarnerina sarebbe dovuta passare sotto l’Austria-Ungheria ma, durante la guerra, nacque l’opzione di una Jugoslavia sostenuta dagli Alleati e tale decisione causò nuove complicazioni intorno alla questione fiumana tra Italia e lo Stato dei Serbi Croati e Sloveni, che solo successivamente si chiamerà Jugoslavia. I fiumani italiani, che erano una netta maggioranza rispetto ad altre etnie presenti, chiesero con il Proclama del 30 ottobre all’Italia di intervenire. I croati, nel frattempo occuparono il Palazzo del Governo per rivendicare la città alla Croazia che sarebbe entrata a far parte di un Regno slavo del sud. Il governo italiano a scopo preventivo inviò delle unità navali a Fiume, rimanendo in attesa di future accordi che poi si sarebbero dovuti definire con gli Alleati nella Conferenze di pace di Parigi. Nel corso delle trattative diplomatiche preparatorie ai futuri trattati, nacque l’idea di promuovere un’azione di forza per Fiume italiana e portata avanti da irredentisti fiumani e circoli nazionalisti italiani. Il 17 novembre 1918 a riequilibrare la situazione per l’Italia arrivarono in città alcuni battaglioni della III Armata italiana, comandati dal generale Enrico di San Marzano, che s’avviarono al Palazzo del Governo per far ammainare la bandiera croata e issare il tricolore italiano. All’arrivo dei soldati italiani, fece seguito un battaglione di fanti inglesi e americani. I francesi, preoccupati di tutelare le posizione jugoslave. In questo contesto assai complesso e drammatico maturò l’Impresa di Fiume guidata dal poeta-soldato Gabriele d’Annunzio. Le sorti incerte di Fiume si univano anche a quelle della Dalmazia, dove la stessa Zara che era popolata, quasi esclusivamente, da dalmati italiani era quasi in procinto di passare agli jugoslavi.

Arriviamo così a D’Annunzio…

Gabriele D’Annunzio - poeta ed eroico combattente nella Grande Guerra, notissimo in Italia per i suoi voli aerei su Vienna e Trieste, nonché per la cosiddetta “Beffa di Buccari” - si pose alla testa di un movimento di opinione che in nome della “Vittoria mutilata”, contestava l’eccessiva arrendevolezza del governo italiano nei tavoli della pace. Nella notte tra l’11 settembre e il 12 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio e i suoi uomini partirono da Ronchi per Fiume. All’alba del 12 settembre si trovò a pochi chilometri dallo sbarramento di Cantrida dove il generale Pittaluga tentò di farlo desistere dall’azione, ma il poeta soldato decise di continuare la marcia e arrivò a Fiume verso le 12.30 accolto con tutti gli onori militari e da una festosa folla. L’Impresa di Ronchi se da una parte rappresentava un nobile gesto di difesa degli italiani di Fiume, dall’altra veniva vista da diversi ambienti politici con sospetto e addirittura considerata un’audace espressione del fermento rivoluzionario nazional-fascista, capeggiato da Benito Mussolini, che si andava propagando in tutta l’Italia.Il primo atto pubblico che D’Annunzio fece appena giunto in città, fu quello di recarsi nel pomeriggio al Palazzo del Governatore e quindi affacciarsi dal balcone principale per salutare la folla convenuta e chiederle la conferma del famoso proclama di annessione del 30 ottobre 1918. Dopo il continuo fallimento delle trattative con il governo italiano Gabriele D’Annunzio si decise a dare vita alla “Reggenza Italiana del Carnaro”, che fu proclamata solennemente l’8 settembre 1920.

In cosa si differenziò dagli altri governi?

La proclamazione della Reggenza del Carnaro fu seguita dall’emanazione di una carta costituzionale che, nelle intenzioni di D’Annunzio e dei suoi collaboratori, sarebbe dovuta penetrare nell’animo degli italiani rigenerati dalla guerra per creare nuove leggi basate sulla giustizia, sul lavoro e sulla prosperità. Nella Carta Costituzionale del Carnaro il lavoro veniva annunciato come valore fondamentale e interesse principale della convivenza civile. All’elaborazione della Carta costituzionale partecipò in misura consistente assieme a D’Annunzio Alceste De Ambris. Nel nuovo documento non apparve soltanto l’esigenza della giustizia sociale e della tutela dei diritti dei lavoratori, ma in esso veniva posta in forte rilievo anche la difesa dell’interesse nazionale, inteso nelle sue espressioni più spirituali. Molti costituzionalisti, ancora oggi, pur tenendo conto della velleità dei suoi ideatori sottolineano tuttavia l’attualità dello Statuto della Reggenza e l’anticipazione rispetto ai tempi di molte cose che verranno acquisite solo in tempi successivi. Intanto prendeva consistenza il Partito Autonomo di Riccardo Zanella che man mano ottenne favori del Governo di Giolitti subentrato a quello di Nitti. A Fiume con D’Annunzio erano giunti i più svariati personaggi, non solo italiani, che avevano infoltito l’ala anticonformista del fiumanesimo come: Leon Kochnitzky, Henry Furst, Lodovico von Toeplitz, Guido Keller e gli scrittori Mario Carli e Giovanni Comisso. Si recarono a Fiume per sostenere gli ideali dell’Impresa anche Filippo Tommaso Martinetti, Guglielmo Marconi e il grande maestro Arturo Toscanini, che al teatro “Verdi” diresse un memorabile concerto

Arrivò poi il Natale di sangue…

Il 12 novembre 1920 fu stipulato a Rapallo, tra Italia e Jugoslavia, il trattato che prevedeva la nascita di uno Stato fiumano indipendente guidato dagli autonomisti di Riccardo Zanella. Tuttavia, il 12 novembre stesso il Governo della Reggenza italiana del Carnaro, appena appreso la notizia dell’accordo di Rapallo, dichiarò di non riconoscere ai delegati convenuti nella città ligure il diritto di determinare il destino di Fiume e della Reggenza. La tragica lotta fratricida iniziò la sera della Vigilia di Natale. Le truppe regolari italiane attaccarono alle 17 le postazioni dei legionari. Il conflitto durò cinque giorni causando la morte di 53 soldati e il ferimento di molte persone. Alla fine, dopo cinque giorni di furiosi combattimenti d’Annunzio annunciò la resa. Dopo la partenza di d’Annunzio il 5 gennaio 1921 si era costituito un governo provvisorio con il compito di preparare la costituzione dello Stato Libero di Fiume.

Cosa accadde poi?

Riccardo Zanella, una volta eletto, prese a praticare un’indiscriminata e preconcetta opposizione contro il governo italiano che lo sovvenzionava ampiamente e auspicò, quasi unilateralmente, una politica di accordi fra l’Ungheria, la Jugoslavia e l’Italia. Intanto tra i dannunziani e gli irredentisti maturarono forme di opposizione a Zanella, tanto che il 3 marzo 1922, un gruppo di fascisti triestini e irredentisti fiumani guidati da Francesco Giunta, attaccarono il Palazzo del Governo dove si trovavano i dirigenti autonomisti. Gli autonomisti dovettero fuggire dopo un cruento scontro a fuoco e la città di Fiume venne poi sottoposta a un “governo provvisorio” composto da varie personalità fiumane tendenti all’Italia e con a capo il fiumano Attilio Depoli. Dall’8 aprile 1922 iniziarono a Santa Margherita ligure gli attesi colloqui italo-jugoslavi per concordare le norme di attuazione del Trattato di Rapallo, secondo cui a Fiume, il funzionamento e il riassetto interno del traffico mercantile e ferroviario, doveva essere organizzato in accordo fra gli stati contraenti. Attilio Depoli stanco di non vedere cambiamenti si dimise. Il governo italiano per evitare nuovi incidenti e sgradevoli incognite decise di inviare a Fiume il generale Gaetano Giardino, in qualità di governatore militare con il compito di tutelare l’ordine pubblico. Intanto Benito Mussolini che divenne a fine ottobre 1922 dopo la Marcia su Roma Capo del Governo, sapeva che il re serbo Alessandro I Karadjordjević era ormai alquanto disposto a concludere le questioni di frontiera con l’Italia sacrificando Fiume, considerata dai serbi una questione ormai secondaria.

Cambiò qualcosa col fascismo?

Il risultato dei negoziati italo-jugoslavi voluti da Mussolini portarono all’accordo firmato a Roma il 27 gennaio 1924 tra Italia e Jugoslavia, che stabilì il tanto sofferto passaggio definitivo di Fiume all’Italia. Al Consiglio dei ministri Mussolini si espresse riguardo all’accordo con la Jugoslavia con queste parole: “Da troppo tempo la questione di Fiume era una specie di saracinesca che impediva la visione e i contatti diretti ed immediati col vasto mondo danubiano. Ora l’Italia non può andare che all’Oriente europeo”: Per celebrare ufficialmente l’avvenuto passaggio di Fiume all’Italia, il 16 marzo 1924 il re Vittorio Emanuele III si recò in città, dove fu accolto da una folla festante. Fiume si accingeva a rinascere e a costituire uno degli anelli di saldatura tra Occidente ed Oriente europeo, tra l’Italia e il mondo danubiano-balcanico. La firma degli accordi di Roma del 27 gennaio 1924, oltre alla definizione della questione fiumana, comprendeva anche un patto di amicizia tra i due Paesi. Nel corso del tempo Mussolini fece eleggere nel 1934 due Senatori fiumani Riccardo Gigante e Icilio Bacci, mentre il fiumano dannunziano Giovanni Host-Venturi divenne Ministro delle Comunicazioni dal 1939 al 1943.

Torniamo così da dove siamo partiti: verso l’addio di Fiume dall’Italia…

Le operazioni belliche contro la Jugoslavia iniziarono il 6 aprile 1941 da parte tedesca, mentre qualche giorno più tardi iniziò l’invasione dell’Italia. Nel settore fiumano l’11 aprile alle ore 17 le truppe italiane varcarono il ponte sull’Eneo per occupare Sussak. Il 17 aprile l’alto comando militare jugoslavo si trovava già nella situazione di dover sottoscrivere la resa senza condizioni. Il fronte jugoslavo fino al 1942 sembrò rimanere sotto controllo delle forze italiane e tedesche, ma col passare dei mesi per l’Italia la situazione bellica peggiorò su tutti i fronti. L’8 settembre 1943 Badoglio leggeva alla radio la dichiarazione con la quale l’Italia aveva chiesto l’armistizio. Le truppe italiane furono lasciate completamente allo sbando, prive di ordini precisi e in balia dell’esercito tedesco. Iniziò nel corso del 1944 a prendere sempre più forza il Movimento Partigiano jugoslavo guidato da Tito che dopo aspre battaglie il 1° maggio 1945 occupò Trieste e subito dopo Fiume e Pola. Tutta la Venezia Giulia fu interessata, non solo da stragi naziste in quell’epoca ma anche da quelle di marca jugoslava utilizzarono le foibe per occultare i propri crimini. Ad un certo momento fu necessario l’intervento degli Alleati a Trieste, Gorizia, per impedire ulteriori massacri e violenze da parte comunista jugoslava nei confronti dell’elemento italiano reo di essersi compromesso col nazifascismo, ma l’intenzione finale di Tito era quella di spingere gli italiani all’esodo. Gli italiani di Fiume come quelli di Zara furono abbandonati al loro destino. A Fiume si moltiplicarono i decreti di confisca dei beni riguardanti circa duemila italiani e parallelamente iniziò a manifestarsi una violenta campagna antireligiosa. A centinaia i fiumani furono liquidati dall’OZNA. Nel corso del lungo dopoguerra costellato da violente tensioni, la prospettiva delle liquidazioni di massa rimase sempre presente nelle angosce delle comunità italiane come possibilità latente ed ammonitrice.

Il negazionismo da parte comunista sia jugoslava che italiana, edulcorato dal giustificazionismo fu sempre molto forte in passato ma continua tuttora in alcune sedi politiche e in molte sezione dell’ANPI legate idealmente all’ideologia comunista.

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