Buonismo e cultura woke hanno cancellato le Olimpiadi

L'Olimpiade è la scalata degli uomini al Monte Olimpo per raggiungere gli Dei ma per il moderno pensiero buonista quel che conta è parteciparvi

Buonismo e cultura woke hanno cancellato le Olimpiadi
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Archiviata Parigi, il prossimo appuntamento con le Olimpiadi è a Los Angeles nel 2028. E chissà se allora torneremo a guardare un'Olimpiade degna di tale nome. Al di là delle forzature woke di questa edizione, creata a immagine e somiglianza di Emmanuel Macron, ciò che molto spesso è mancato è la "cattiveria" agonistica degli atleti. Le Olimpiadi trasformate nel torneo dell'oratorio in cui "l'importante è partecipare" sono l'antitesi di ciò che è lo spirito olimpico e la normalizzazione degli atleti è quanto di più lontano ci sia da questo evento. Il merito, parola tanto biasimata dai pensatori d'oggi, è il senso di ogni competizione. L'atleta è un "super uomo" che con la sua impresa mira a raggiungere l'Olimpo per trovare un posto tra gli Dei. Ha un plus rispetto all'essere umano comune e la sua normalizzazione ne svilisce la potenza.

Attenzione, ciò non significa che ogni atleta deve vincere. Non sarebbe lo sport ma un'esibizione buonista. Un atleta deve però dare tutto se stesso per arrivare all'Olimpo e se non ci riesce non può dire che tutto va bene. La "cattiveria" agonistica nella moderna società viene spesso stigmatizzata, come se fosse un approccio irrispettoso nei confronti degli avversari. Questo perché l'avversario viene spesso considerato un nemico, quando in realtà per uno sportivo è il suo migliore amico. Con un avversario ci si batte, ci si confronta, un nemico si combatte ed è proprio questo l'errore in cui troppo spesso si cade nella moderna concezione dello sport.

Un avversario è colui con il quale ci si confronta per tirare fuori il meglio di sé durante una competizione, è lo specchio nel quale guardarsi per capire quali sono le proprie debolezze e lavorare per superarle. Se non si supera vuol dire che non si è compiuto al meglio il proprio dovere e che l'avversario è più forte, quindi occorre lavorare di più per raggiungere l'Olimpo, che è il traguardo ultimo di ogni atleta. E per farlo, oltre alla bravura, serve proprio la "cattiveria" agonistica, che non è altro che la determinazione, quel fuoco che arriva da dentro che spinge un atleta a una gara rabbiosa, al termine della quale non si può dire "va tutto bene" se non si è arrivati alla vittoria. Ci si arrabbia, ci si interroga su cosa abbia impedito la vittoria. Essere sconfitti non è essere perdenti ma la rabbia deve trasformarsi in motivazione. Se non c'è rabbia, non c'è motivazione.

Antonino Pizzolato, sollevatore di pesi italiano, non ha vinto l'oro in questa Olimpiade. Ha vinto una medaglia, è arrivato terzo, ma non ha vinto. Ma ci ha provato in tutti i modi che ha potuto e si è messo sulle spalle 212 kg nonostante il dolore lancinante alla schiena. Era una sfida contro se stesso e l'ha vinta, sollevando un chilo in più rispetto all'avversario all'ultimo tentativo. Ha perso la sfida con gli avversari, stavolta, ma ce l'ha messa tutta. Gianmarco Tamberi non sarebbe mancato alla finale di salto in alto nemmeno se lo avessero immobilizzato a letto. È stato un pomeriggio in ospedale per le coliche renali e nonostante tutto si è presentato in pedana. Stavolta la sfida per l'Olimpo non era alla sua portata e lui lo sapeva, lo sapevano tutti quelli che erano davanti alla tv e che l'hanno applaudito in ingresso allo stadio olimpico. È arrivato penultimo, ma ci ha provato e solo gli Dei che l'hanno visto trionfare nel 2021 ne conoscono la rabbia derivante da questa sconfitta.

Poi ci sono gli atleti che nella loro ascesa al monte Olimpo incontrano le proprie "dodekathlos", ognuno diverse. La rabbia del Settebello, dei "super uomini" della pallavolo dopo la sconfitta contro l'Ungheria è il più bel quadro di ciò che sono la rabbia sportiva e la percezione dell'ingiustizia. La loro, e non solo la loro, ascesa è stata fermata da un intervento esterno. Hanno buttato fuori lacrime e sangue, dimostrando che non è vero che all'Olimpiade l'importante è esserci e partecipare. L'importante è vincere. Se non si vince non si è perdenti ma se non si gareggia per vincere allora non ha senso nemmeno esserci. "La determinazione l'ho ereditata da mia madre ingegnera. Testa bassa e lavorare, il suo motto.

I miei genitori mi hanno insegnato che, anche dopo un grande risultato, si continua a lavorare", ha dichiarato Sofia Raffaeli, bronzo nella ginnastica ritmica. In poche parole c'è tutto quello che è il senso dell'Olimpiade.

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