Il supermarket dei bambini

Ora i figli si ordinano via Internet. In uno dei centri che all'estero offrono "cure contro la sterilità". In molti Paesi è legale. Da noi si rischia la galera

Il supermarket dei bambini

Alla BioTexCom di Kiev, in Ucraina, famoso «Centro per la riproduzione umana», offrono tariffe e pacchetti molto competitivi. Il miglior affare del «discount» (testuale), con tanto di foto di neonato felice in pronta consegna, è di 9.900 euro: «successo garantito». Per quella cifra offrono illimitati tentativi di procreazione (mentre l'«economy package» per 4.900 euro, ne consente solo uno, vuoi mettere?) e il rimborso in caso di insuccesso. Bambino chiavi e biberon in mano, fecondati o rimborsati. Per i più abbienti invece c'è il pacchetto lusso, all inclusive (29.900), che comprende non solo la consegna di un bambino, ma anche i costi di trasporto per Kiev, un appartamento o villa in centro, vitto, interprete, spese legali, assistenza medica, compenso per la ragazza ucraina che mette a disposizione il proprio utero, e magari anche un cocktail di benvenuto, come facevano i mobilifici della Brianza. Se si guarda al portafoglio, una coppia, anche omosessuale oppure anche un single in vena di maternità o paternità, che volesse farsi procreare un bambino con la tecnica della «madre surrogata» (una donna che acconsente, dietro compenso, a farsi impiantare un seme e un ovulo, non necessariamente di chi richiede un figlio alla clinica), conviene guardare all'Ucraina.

In Russia, per avere la clinica leader, la Sweetchild di Mosca, bisogna mettere in conto almeno 35mila euro, negli Usa almeno il doppio. Anche loro forniscono tutte le garanzie sulle madri in affitto, donne che si faranno fecondare per partorire un bambino e consegnarlo ai clienti, definiti «genitori committenti», previo «contratto di gestazione», sia mai che a una di loro venisse voglia di tenerselo, dopo averlo fatto crescere in grembo per nove mesi. C'è anche una lista di donatrici di ovulo, nel caso la coppia committente non fosse in grado di produrlo. E allora ecco Olga, 24 anni, 1 metro e 55 per 52 kg di peso, capelli scuri e occhi verdi, prima di reggiseno, oppure Irina, 33 anni, quasi un metro e ottanta, bionda e occhi azzurri e terza di seno. E molte altre nel catalogo tra cui scegliere come madre incubatrice, ma solo fino al parto, del proprio bambino.

I requisiti richiesti per diventare madre surrogata o anchedonatrice di ovulo sono, oltre alla salute generale, quello di avere almeno un figlio, e se sposate, di avere il consenso scritto del marito. Questo per evitare spiacevoli conseguenze, che possono finire in tribunale. E ci finiscono.

IN VIAGGIO VERSO EST

La pratica in Italia non è consentita, ma le coppie italiane che non riescono a diventare mamme e papà, o che sono sterili o omosessuali, e vogliono un bambino da madre surrogata possono andare all'estero, nei Paesi dove la legge permette la «surrogazione di maternità». L'Ucraina e la Russia, appunto, ma anche la Georgia, il Kazakistan. Oppure verso una meta più più lontana e più costosa, alcuni (otto, per l'esattezza) Stati degli Usa, il Canada. Più di recente l'India e il Nepal. Dalle parti di Nuova Delhi si stima che il giro di affari della maternità surrogata, rivolta soprattutto ai ricchi occidentali, sia di 400 milioni di euro l'anno. Ma il divieto del governo indiano alle coppie omosessuali ha aperto quel fiorente ramo di business per il vicino Nepal. «Il Nepal è diventato un produttore di bambini per ricchi» scrive il quotidiano spagnolo El Pais in un'inchiesta appena pubblicata. «Le leggi sulle madri surrogate sono confuse. Imprenditori e utenti sfruttano i vuoti legislativi di una prassi troppo nuova per essere ben regolata dalla legge. Ma più di un anno fa il governo indiano ha proibito ai single e alle coppie gay di ricorrere alla maternità surrogata, e questa crisi è diventata un'opportunità per il Nepal: un mercato, una nicchia. A Kathmandu, le fabbriche di maternità per conto terzi sono spuntate come funghi: ce ne sono già più di una decina. Il governo non si intromette se la transazione avviene tra stranieri, e le cliniche assumono donne indiane o bengalesi per usare i loro ventri». Il francese Le Nouvel Observateur usa questa immagine: «I neonati sono puzzle composti da tasselli che provengono da tutto il mondo. Ovulo messo a disposizione da una polacca o da un'ucraina, perché il bambino sia caucasico; sperma americano, svedese o giapponese; embrione congelato in India e impiantato nell'utero di una bengalese in una clinica del Nepal». Nel frattempo, nei laboratori della Kyoto University (Japan), si lavora alla produzione di sperma artificiale tramite staminali. Non servirà più neppure quello.

Decine di coppie italiane si affidano ogni anno alla maternità surrogata all'estero. Le difficoltà possono nascere quando si vuol far riconoscere dalla legge italiana il rapporto genitore-figlio. I problemi, che possono sfociare anche nel mancato riconoscimento del figlio da parte dello Stato, dipendono da diversi fattori: l'inesistenza di un legame genetico tra genitori e bambino rintracciabile con l'esame del Dna, le leggi del Paese in cui il bambino è fatto nascere (ad esempio in Usa c'è lo ius soli, quindi il bambino nasce americano, in Russia e Ucraina no e dunque bisogna procedere alla trafila burocratica, dal consolato italiano fino al comune di residenza). Si può rischiare anche un'incriminazione per «alterazione di stato» del neonato, punita dal codice penale italiano con la reclusione fino a quindici anni. È capitato, tra gli altri, a una coppia bresciana, tornata da Kiev con due gemellini. Dallo sportello comunale a cui chiedono la registrazione anagrafica parte una segnalazione alla Procura, la quale accerta che a partorire è stata una giovane ucraina e non la «madre» bresciana. Risultato, la coppia è stata rinviata a giudizio, ed è ancora sotto processo.

L'ESPERIENZA DEL «DONO»

Non ci sono soltanto problemi, la maternità surrogata è piena di storie felici, maternità finalmente compiute, donne orgogliose di prestare il proprio grembo per permettere ad altre donne di conoscere la gioia di essere madri. Perché ci sono anche loro, le «surrogate», le donne che partoriscono un bambino che poi salutano per consegnarlo alla coppia committente. Felici di esserlo, come Natasha, una testimonianza raccontata in Madri, comunque da Serena Marchi. «In questo momento sto aspettando i gemelli di una coppia tedesca che nasceranno tra sei mesi. È la quarta volta che ospito nel mio ventre i figli di chi non può partorirne. Durante le gravidanze che faccio per gli altri genitori non penso mai: “Questo figlio è mio, me lo tengo”, perché so dal primo momento che non lo crescerò, che lo partorirò e poi lo darò ai suoi genitori. So che porto avanti la gravidanza per altri. Lo voglio ribadire: io ho un solo figlio, la più grande gioia della mia vita. Gli altri che ho messo al mondo sono i figli di qualcun altro. Non mi ricordo né il giorno in cui sono nati né se erano maschi o femmine, nemmeno quanto pesavano. Non mi interessava e non mi interessa. Questi bambini non hanno niente di me, non hanno il mio dna, non verranno educati da me. Io li ho solo partoriti, ho aiutato chi naturalmente non lo poteva fare. E aver visto gli occhi pieni di gioia delle mamme e dei papà ai quali li ho consegnati è una delle cose che mi rende felice e serena. Per me mio figlio è così importante: perché non aiutare gli altri ad averne? Cosa c'è di male?».

BATTAGLIE LEGALI

Altre esperienze non sono così serene, anche negli Usa, dov'è più contenuto il rischio (rispetto a India, Nepal, o Paesi dell'Est dove la povertà è più diffusa) che procreare per altre donne diventi un lavoro, meglio remunerato di altri. Il New York Post racconta una delle testimonianze raccolte in un documentario choc, Breeders: A Subclass of Women? («Breeder» si può tradurre con «animale da riproduzione»). Angela Robinson, di Middletown, Stato di New York, si offre per fare da madre surrogata per il fratello e sua moglie. Dopo il parto qualcosa in lei cambia, rivuole il bambino, inizia una battaglia legale che finisce in una sentenza che glielo riconosce come suo. «Penso che la maternità surrogata vada vietata – racconta -. L'idea che si possa pagare per avere un figlio è orribile. Tutti pensano alle persone che non possono avere figli, ma nessuno pensa ai bambini nati così, o alle donne da riproduzione che stiamo creando con questa tecnica». Il documentario, prodotto dal Center for Bioethics and Culture, rappresenta un punto di vista più conservatore sulla materia, non condiviso dal jet set hollywoodiano (hanno già utilizzato la maternità surrogata Robert De Niro, Dennis Quaid, Ricky Martin, Sarah Jessica Parker). «Dal momento in cui mi sono messo al computer e ho digitato “maternità surrogata” al momento in cui ho avuto i miei bambini in braccio, è trascorso un anno – ha raccontato Ricky Martin a Vanity Fair -. Ci sono agenzie attraverso le quali puoi consultare i profili di molte donne. Ti siedi, leggi e cominci a riflettere: “Forse voglio una donna latina come me, con un buon livello d'istruzione, alta, ma non troppo...”. È un procedimento lungo. Alla fine non sai neanche tu perché, di fronte a una fotografia e a una descrizione, pensi: “Questa è la madre di mio figlio”. Però succede».

AMERICA DA RECORD

Solo nel 2012 sono stati quasi 2mila i bambini nati così negli Usa, secondo i dati dell'American Society for Reproductive Medicine. E i numeri, ovunque, crescono. La tecnica evolve, come anche i desideri.

I ricchi indiani, informa la newsletter della russa Sweetchild Ltd, iniziano a chiedere figli dalle caratteristiche fisiche europee, usando «biomateriale proveniente da donatori di carnagione chiara e occhi azzurri». Figli da catalogo. Padri e madri, ad ogni costo.

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