Terrorismo, il reality show dell'orrore

L’estetica della violenza, dai testamenti dei kamikaze alle decapitazioni in diretta. L'escalation nell'uso criminale delle riprese televisive iniziò dopo l'11 settembre. Imitando le Br anni Settanta

Terrorismo, il reality show dell'orrore

Al cinema, un tempo, la paura correva sul filo. Nella realtà, adesso, il terrore corre sul video. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. La «multivisione» delle Twin Towers che crollano, trafitte dagli aerei di linea, l’11 settembre 2001; la saga audiovisiva dei messaggi di Bin Laden dagli aridi paesaggi montuosi dell’Hindukush, attraverso accurata scelta di sfondi, abiti, posture, armi; le atroci videodecapitazioni in diretta di ostaggi occidentali scandite dalla lettura di lugubri proclami jihadisti. E ancora: i videotestamenti dei kamikaze islamici pronti a farsi esplodere in nome del martirio; le foto digitali dei prigionieri iraniani umiliati e seviziati dai soldati americani nella prigione di Abu Ghraib; l’impiccagione di Saddam ripresa da un cellulare, per certificare gli ultimi istanti di vita, pure dignitosi, del dittatore. Immagini difficili da sostenere, benché lo spettacolo della sofferenza e della morte non sia una novità nei nostri media televisivi.

Ora un libro riflette sul tema delicatissimo. Si intitola, appunto, Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle Br ad Al Qaida (Rubbettino, pagg. 141, euro 10, in uscita questa settimana), l’ha scritto un giovane saggista, Christian Uva, il cui nome non suonerà nuovo ai lettori del Giornale (suoi Destra e sinistra nel cinema e Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano). Dalle note di presentazione: «L’avvento dell’era digitale ha portato a compimento un processo che vede oggi gli estremisti assumere, a tutti gli effetti, il ruolo di veri e propri registi specializzati in quel nuovo genere chiamato “terrore”, avendo ben compreso che, come sostiene Paul Virilio, i più moderni mezzi di comunicazione di massa sono ormai vere armi di distruzione di massa».

C’è poco da stare allegri, dunque. Anche perché, se da un lato tv generaliste e grandi network hanno imparato a risparmiarci gli orrori più estremi, per deontologia e rispetto delle vittime, dall’altro la causa fondamentalista ha potuto contare su migliaia di «ripetitori», come quel ventunenne americano, ribattezzatosi Samir Khan, che dalla casa dei genitori, nella Carolina del Nord, fece regolarmente rimbalzare in Occidente, tramite blog, i manufatti multimediali dei gruppi jihadisti.

Ormai si può parlare, infatti, di una vera e propria industria. Un’attività, ricorda Uva, «che vede ogni giorno al lavoro decine e decine di troupe munite di videocamere, luci, cavalletti, microfoni pronti a “immortalare” la morte e a restituirne la visione su scala mondiale».

In effetti, a sette anni dall’11 settembre, la controffensiva mediatica architettata dai gruppi armati del terrorismo islamico sembra aver individuato - fa quasi senso scriverlo - due tipologie principali di «prodotti». Dove il «mito», costruito attorno alla figura satanica dello sceicco del terrore, si alterna al «rito», nella sua variante più spaventosa, elaborata da Al Zarqawi, per fortuna poi ucciso, autore egli stesso di decapitazioni in diretta, dentro una cornice sacrificale maniacalmente preordinata. Ricorderete: la ripresa frontale, le vittime in tute arancioni, i cappucci neri dei boia, la nenia dei proclami, il coltellaccio che sguscia fuori all’improvviso, l’azione stessa dello sgozzamento, la testa staccata dal collo.

Già, niente è casuale nell’allestimento del mostruoso «spettacolo»: a partire dal fattore durata, perché alla fine ciò che risulta intollerabile per chi guarda è proprio la consapevolezza del rapporto inversamente proporzionale tra lo scorrere della registrazione e il tempo che rimane da vivere alla vittima. Metaforicamente Jean Cocteau parlò del cinema come «morte al lavoro», certo non potendo immaginare che tanti anni dopo sarebbe venuta da questi orribili video, per dirla con Uva, «una piena e letterale attuazione, che si rinnova nella seriale, ossessiva, disciplinata certificazione del gesto estremo».

D’altro canto, Al Qaida non ha inventato nulla. Vi dice niente Roberto Peci? Ventisette anni fa, ben prima che Bin Laden lanciasse la sua sfida globale, le Br registrarono in Vhs il processo al fratello del «pentito» e «infame» Patrizio. Il calvario di Roberto, pure lui ex militante brigatista, durò 54 giorni, un giorno in meno rispetto a quello di Moro. E si concluse nello stesso modo: con una sventagliata di mitra, undici colpi e una macabra polaroid che mostra la pistola col silenziatore di Senzani puntata sul corpo ormai esanime del poveretto.

Camicia a scacchi, pantaloncini di jeans corti, barba malfatta, lo sguardo perso nel vuoto, Peci viene ripreso con modalità non troppo distanti da quelle adottate oggi da Al Qaida, se non fosse per la bassa risoluzione e l’assenza in video dei carnefici: il drappo rosso, le note di Bandiera rossa, un cartello che recita «L’unico rapporto della rivoluzione con i traditori è l’annientamento», la voce grave, fuori campo, che elenca i capi di «imputazione» e successivamente scandisce la condanna a morte. Quasi una «tv del dolore», molto made in Italy.

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