Tokugawa Yoshinobu, una vita in bilico fra un Giappone e l'altro

Adottato a metà Ottocento dalla famiglia che deteneva il governo, dovette affrontare l'arrivo degli stranieri. L'attendismo fu la sua arma principale. Poi l'imperatore riprese il centro della scena

Tokugawa Yoshinobu, una vita in bilico fra un Giappone e l'altro
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Se l'Italia di oggi fosse il Giappone a cavallo fra XIX e XX secolo, Sergio Mattarella ne sarebbe l'imperatore, Giorgia Meloni ne sarebbe lo shogun, cioè il capo del governo militare, e i governatori delle regioni ne sarebbero i daimyo, cioè i grandi feudatari, la base della società, una società, appunto, feudale.

Se poi quell'Italia alla giapponese fosse oggi minacciata dall'invasione di una o più potenze straniere (poniamo il caso della Russia spalleggiata dalla Corea del Nord), dovrebbe scegliere fra due strade: subire o reagire, e sarebbe tutt'altro che unita. L'imperatore Mattarella, custode dell'integrità del Paese, barricato nella reggia del Quirinale, se non altro in ossequio al proprio ruolo istituzionale sarebbe per la reazione. I governatori/daimyo delle regioni sceglierebbero in base ai propri interessi (possiamo ipotizzare che, da sinistra a destra, Piemonte, Lombardia e quello che un tempo si definiva Triveneto sarebbero per la reazione, mentre gli altri feudi starebbero un po' di qua e un po' di là, e magari qualcuno, tra il lusco e il brusco, ne approfitterebbe per mettere in piedi una bella guerra civile, per fare buon peso agli stranieri). E Giorgia Meloni, leader attorniata dai propri uomini di fiducia a Palazzo Chigi, la persona dotata degli strumenti per fare l'una o l'altra cosa, la guerra oppure la pace, quale strada imboccherebbe?

Per fortuna, non è questo il momento di rispondere, né di ipotizzare una risposta (anche perché c'è invasore e invasore: se al posto di Putin e di Kim Jong-un ci fossero Trump e Musk?). Lo scenario che abbiamo abbozzato serve a introdurre una figura eccentrica rispetto al Giappone come si è consolidato nell'immaginario collettivo occidentale, che lo vuole anticamente moderno e modernamente antico, tra cerimonia del tè e altissima tecnologia, tra collettivizzazione del lavoro capitalistico e frammentazione del tessuto sociale, qualcosa di esotico ed enigmatico, di futuribile e di retrogrado.

Quell'uomo si chiamava Tokugawa Yoshinobu, e la sua storia la racconta Shiba Ryotaro in L'ultimo shogun (Einaudi, pagg. 281, euro 20, traduzione di Maria Teresa Orsi). Per rimanere ancora un minuto nel gioco delle similitudini, Yoshinobu/Giorgia fu il curatore fallimentare della «repubblica» shogunale, e il suo personale, di fallimento (ma possiamo anche definirlo volontaria uscita di scena), segnò la restaurazione imperiale, non più nella persona di Mattarella/Komei, ma di un altro «figlio del Cielo», Mutsuhito, quello del periodo Meiji, cioè «del regno illuminato».

Yoshinobu nacque nel 1837 e, dopo una formazione a base di arti marziali e libri di testo (nella proporzione di due terzi e un terzo), la sua vita svoltò quando il dodicesimo shogun di casa Tokugawa, Ieyoshi, del quale era il pupillo, lo fece adottare dalla famiglia Hitotsubashi, un ramo dei Tokugawa, rendendogli così possibile la futura nomina a shogun. Ed è significativo che a uccidere Ieyoshi, gettandolo in uno stato di prostrazione tale da rendergli insopportabile la vita, sia stato, nel 1853, l'arrivo nella baia di Edo (il vecchio nome di Tokyo) della flotta statunitense comandata dall'ammiraglio Matthew Perry. Su quelle «navi nere» (così chiamate in Giappone perché minacciose e anche perché andavano a carbone, lordando il bel cielo del Sol Levante) c'erano gli invasori. Con quegli uomini, e con altri loro compari, Yoshinobu dovrà, trentenne, fare i conti.

E come li fece? A modo suo, da politico nato, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. In parte, c'è da capirlo. Prima di diventare l'ultimo shogun (detto per inciso, in molte occasioni negò recisamente di volerlo diventare), dovette vedersela con, in ordine di apparizione: l'Ooku, cioè l'harem delle donne a disposizione dello shogun di turno; Ii Naosuke, il reggente, per mancanza di eredi, dello shogunato, e soprattutto convinto filo-statunitense; un buon numero di daimyo ondivaghi quanto lui; l'assassinio di tre suoi consiglieri-uomini di fiducia; l'ormai inevitabile, stante la situazione di stallo, guerra civile, con quelli del Choshu contro tutti.

Una volta nominato tutore di Iemochi, quattordicesimo shogun targato Tokugawa, fragile nel corpo e nella mente, Yoshinobu imboccò il rettilineo finale della sua parabola ascendente. Ma il suo shogunato durò quindici mesi scarsi, fine agosto 1866 - novembre 1867. Lo chiamavano «Sua Signoria doppiafaccia», o «Sua Signoria dei maiali», vista la sua predilezione per la carne di maiale.

Chi lo frequentava, lo considerava un «bevitore riottoso», di quelli che se gli offri del sake rifiuta, ma se non insisti s'incazza. Da buon aristocratico, voleva essere servito e riverito. Il suo idolo era Napoleone, quello vero, il primo. Non ebbe mai un impero, ma soltanto una pensione dorata.

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