Le «linee di viaggio» nascono, come Venere, dalle onde. La spuma del mare non cancella queste scie: si traducono in carte e queste carte diventano un'immagine del mondo e uno strumento di dominio sulla realtà. È la storia raccontata dal punto di vista della cartografia marittima: un viaggio affascinante, che Sara Caputo, Senior Research Fellow al Magdalene College di Cambridge, ci racconta nel suo Sentieri sull'acqua, appena edito da Touring Club Italiano.
Sara Caputo, che cosa sono i Sentieri sull'acqua?
«Il termine in realtà è tracciato, track in inglese, che deriva dalla convenzione di disegnare il viaggio compiuto come una linea sul mondo: una convenzione cartografica, che però influisce sul nostro modo di vedere il movimento e di posizionarci sulla Terra».
Quando appaiono questi tracciati?
«Nel mondo antico non ci sono prove che esistessero. Emergono con l'espansione oceanica europea, dal Cinquecento in poi e sono legate alla necessità di rappresentare i viaggi per mare».
Che valore hanno queste linee?
«Hanno una valenza tecnica, quella di segnare la rotta e una valenza culturale, profonda, come segno sul mondo. La Bibbia dice: Tutto questo è passato come ombra e come notizia fugace, come una nave che solca un mare agitato e, una volta passata, di essa non si trova più traccia, né scia della sua carena sulle onde. È un invito all'umiltà, di cui gli europei del Cinquecento erano consapevoli; ma in quest'epoca emerge una nuova idea di dominio imperiale, sull'ambiente e sul pianeta, che si rivela anche in questi tracciati, i quali a loro volta assumono valore, come qualcosa che esiste».
Perché sono tipicamente occidentali?
«Intendo occidentali in senso tecnico: non ne ho trovato l'equivalente nelle cartografie di culture di altre parti del mondo. Ci sono linee sull'acqua nella cartografia giapponese, cinese e coreana, qualche secolo prima di quella occidentale, ma non riguardano viaggi individuali: sono strutture, come una rete di strade, non raccontano l'individuo che lascia la sua scia».
E in Occidente?
«Sono utilizzate in modo totalmente diverso, per raccontare il viaggio del singolo. L'idea che tu, come persona, lasci una linea nell'acqua è nuova: è l'impulso marittimo, tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, a spingere gli europei a trovare nuovi strumenti, che poi, da allora, sono utilizzati ovunque. È una rivoluzione: prima le mappe non erano utilizzate per spostarsi, ma erano liste di itinerari; l'idea di osservare dall'alto come muoversi nel mondo è nuova. E oggi tutti si comportano così».
I tracciati sono individuali, eppure hanno pretesa di «oggettività». Un paradosso?
«Questo è interessante. Se vado su una pianura innevata lascio delle tracce, mentre per mare non rimangono impronte: sono io a dire dove sono stata... È una percezione, e inoltre la misurazione non è mai precisa, soprattutto per mare; quindi è impossibile che questi tracciati siano perfetti e, in più, sono difficilmente verificabili, anche per la persona stessa. Fino al Sette-Ottocento la misurazione per mare era assai precaria: anche se i navigatori cercavano di essere il più scientifici e onesti possibile, dicevano comunque dove pensavano di essere passati, e magari c'era una discrepanza enorme rispetto al tracciato; poi però tutto questo, a livello popolare, veniva tradotto in questa è la verità. È qualcosa che spesso succede alle parole degli scienziati, anche oggi...».
Che cosa ci raccontano questi tracciati?
«Una estrema paura della mortalità e la necessità di comprendere un mondo complesso, che sfugge agli schemi. Un tracciato è uno schema che cattura la realtà: difficilmente James Cook avrebbe potuto descrivere il suo intero viaggio... Il tracciato semplifica, prende un viaggio e te lo mostra sulla scrivania, ti dà l'illusione di capirlo: è una strategia di sopravvivenza, per affrontare la complessità della vita. Poi occupare spazi e raccontare la propria storia - che sono le altre due dimensioni di questi tracciati - sono ulteriori forme per stabilire la propria esistenza nel mondo».
Parliamo di occupare spazi.
«Ci sono dimensioni imperiali e psicologiche, come marcare un territorio quando ti muovi nella foresta: lo stesso fai trasferendo il mondo su una cartina e poi stabilendo il controllo su quella realtà virtuale, che però va a dominare il mondo in cui vivi. Infatti vediamo più la cartina che il territorio».
Attraverso tracciati e cartine costruiamo il mondo?
«Costruiamo una nuova realtà, e anche un mondo dal punto di vista tecnico».
Perché le mappe sono così affascinanti?
«È molto avvincente riuscire a vedere una forma della nostra storia sulla mappa: una linea è uno strumento potente, e utile, per raccontare storie, non noiose, visibili, chiare ed eleganti».
I tracciati sono anche sorveglianza?
«L'idea di lasciare una linea da parte dell'individuo è il tassello fondamentale della sorveglianza: nell'Ottocento era disegnata dalla persona stessa, nel mondo digitale non serve nemmeno che ci autotracciamo, perché basta avere il cellulare in tasca e il tracciato viene disegnato».
Che cosa ci raccontano i tracciati della nostra storia?
«Questo tentativo di persistere, questo senso di impotenza di fronte alle forze naturali e alla complessità. Successi e fallimenti. E la ricerca di strumenti per cercare di diminuire questo senso di impotenza e di stabilire un po' di controllo e di lasciare un marchio, nel nostro piccolo: una linea, a volte a spese di altri, ma che è desiderio di persistere di fronte all'infinito».
E del nostro futuro?
«Ci parlano della dimensione ambientale: quanto è possibile per tutti
lasciare un segno, prima che il mondo inizi a deteriorarsi? E poi della dimensione digitale: il digitale ha cambiato la cartografia e non sappiamo ancora come questo cambiamento si tradurrà nel nostro modo di vedere il mondo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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