Di fronte all’immensa tragedia dei
duecentocinquanta morti per mare diretti verso l’Italia, al di là
degli echi della solita malafede politica (che ormai c’è sempre in
ogni caso) sento ripetere un ritornello che anch’io ho ripetuto tante
volte: è colpa nostra, è colpa mia.
Lo dicono giornalisti, vescovi, intellettuali: i
colpevoli siamo noi. Io l’ho ripetuto quando mi sono sentito colpevole
dei morti in Vietnam, quando il massacro di Srebrenica mi indusse a
dire che anch’io avevo ucciso quella gente, e così via: tante volte. Un
prete, quando avevo quattordici anni, mi mise paura commentando la
frase di Gesù sul cammello che passa per la cruna dell’ago:disse che,
con tutta la gente che muore di fame, chi è ricco è, solo per questo,
un assassino.
Non mi sono mai sentito estraneo a nessuna strage,
per la semplice ragione che non si può: nessuno è estraneo, mai. I
sensi di colpa, però, sono un’altra cosa. Un conto è non essere
estranei, un altro sentirsi colpevoli.
Oggi mi chiedo: tutti questi sensi di colpa che cos’hanno prodotto? Ha ragione il Woody Allen di Match Point :
hanno prodotto soprattutto tante autogiustificazioni e, alla fine, una
marea di cinismo. Il grande poeta Charles Péguy diceva che a Dio non
piace la gente che si macera e si tormenta pensando ai propri peccati.
«Quei peccati che tanto ti affliggono, amico, era semplice: bastava
non commetterli...».
Io sono grato a Péguy per queste parole, perché mi
hanno liberato da un inutile fardello. L’uomo afflitto dai sensi di
colpa non è un uomo libero, e se non è libero non è nemmeno un uomo
responsabile. Le sue azioni, non essendo azioni libere, finiscono spesso
per produrre l’opposto di quello che si erano proposte. I sensi di
colpa ci distolgono dal prendere in mano la nostra vita con quello che
comporta, offrendoci una scusa - tutti noi siamo sempre affamati di
scuse e pre-testi, siamo la Civiltà del Pretesto - per distogliere lo
sguardo dalle tragedie e rivolgerlo sempre e soltanto su noi stessi,
per occupare i nostri pensieri con tutto quello che non abbiamo detto o
non abbiamo fatto.
Siamo sempre pronti a fare il mea culpa,
specialmente quando non ci costa niente. Intanto, però, il sacramento
della Confessione oggi è disertato - mi riferisco, ovviamente, a chi
frequenta le chiese cattoliche. Ma è un segno per tutti. Per quanto mi
riguarda, devo già fare i conti con i peccati che commetto
personalmente, e forse perché lavoro sempre di più - trovo certe colpe
un lusso che non mi posso più permettere. Come trattiamo la moglie, i
figli, i colleghi di lavoro, gli amici? Come ci trattiamo tra noi? Come
trattiamo la nostra vita, concretamente, giorno dopo giorno,
assumendoci le nostre responsabilità e accettando le conseguenze delle
nostre azioni?
Le grandi tragedie- lo diceva già Aristotele, con
più garbo sono l’amplificazione della nostra quotidiana imbecillità. Ci
si colpevolizza per eventi terribili per poi consolarci al pensiero
che tanto non potevamo farci nulla. Invece la domanda è: quello che
possiamo fare, come lo facciamo? Di cose che possiamo fare ce ne sono
tante, a partire da adesso. Noi non abbiamo nessuna colpa per la
disgrazia che oggi, giustamente, ci fa piangere.Ma forse quella
tragedia sarà un po’ meno orribile se quelli che riusciranno a
raggiungere il nostro Paese troveranno una società giusta e generosa,
ossia capace di esercitare, ma anche di insegnare, la giustizia e la
generosità, il rigore e la larghezza di cuore (che non possono mai
essere disgiunti).
Insegnare, ho detto. Esiste infatti una questione educativa che non va elusa. Chi agisce per senso di colpa raramente ha la forza di educare, di trasmettere conoscenze e valori, perché per educare davvero, oltre al coraggio, ci vuole qualcosa di bello. È indispensabile. Ed è ciò che queste persone chiedono, e per cui tanti di loro muoiono: qualcosa di bello - una casa, un lavoro, un luogo dove crescere i figli in pace, un posto dove riposare - che illumini la loro vita.
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