L'Italia del "no" fa sentire il suo peso nei conti della crisi energetica. L'Italia del "no a tutto", no alle trivelle, no ai gasdotti, no a qualsiasi riflessione sul nucleare, no addirittura ai parchi per le rinnovabili quando fatta nel suo cortile di casa è corresponsabile delle problematiche acuite, nell'ultimo anno, dal contesto globale e dalla tempesta della guerra in Ucraina.
L'Italia del "no" contiene al suo interno gli avversari inguaribili delle politiche energetiche, gli ambientalisti ideologici, diverse forze politiche in larga parte riferibili agli ambienti progressisti ma che non mancano di coinvolgere in diversi casi forze di destra e liberali, intellettuali e agitatori. E ha un potere d'influenza importate su un'opinione pubblica a cui spesso è difficile spiegare l'utilità prospettica di un rigassificatore o di una centrale elettrica e i suoi dividendi economici-sociali, ma è più facile prospettare disastri ambientali o minacce alla salute. Un intero filone politico si è sviluppato a partire dall'ideologia del No. Possiamo fornire di esso alcune istantanee.
I costi economici e sociali del "no" al gas
La prima è quella del costoso disastro sul gas di cui si sono rese, in tempi diversi, responsabili molte forze politiche attorno alla pressione esercitata dal Movimento Cinque Stelle prima e dopo l'ascesa al governo. Mentre la tempesta energetica d'autunno pare farsi sempre più prossima, i prezzi sono in volo e l'inflazione galoppa il nostro Paese si trova in una fase critica in cui sul fronte del gas naturale la ricostruzione delle scorte e la lotta ai rincari deve far fronte con la castrazione dell'estrazione nazionale operata per vie politiche. Stiamo parlando dell’inopinata decisione presa ai tempi del governo Conte I su iniziativa del Movimento Cinque Stelle con il benestare del partner di governo di allora, la Lega, di fermare e depotenziare le capacità estrattive dell’Italia e di bloccare le trivelle operanti nell’offshore del Mar Adriatico. Decisione che anche il governo Conte II a trazione M5S e Partito Democratico ha, di slancio, confermato e che in sostanza il governo Draghi non ha ribaltato.
Anzi, il governo Draghi ha nel febbraio 2022, poco prima dell'invasione russa dell'Ucraina, dato il via libera definitivo al piano istituzionale che, secondo le norme dei governi Conte, ha dato struttura all'Italia del no e alle sue pretese politiche: il Pitesai, che inndica le aree idonee e quelle non idonee all'estrazione di idrocarburi. Il Pitesai è stato approvato andando al contempo in parte a bloccare quanto previsto dal Decreto Bollette promosso ai tempi dal governo Draghi su iniziativa di Roberto Cingolanni, che apriva all'estrazione crescente dai giacimenti nazionali. Il Pitesai ha indicato chiaramente le aree escluse dalla possibilità estrattiva indicando come ingestibile in tal senso il 42,5% della superficie nazionale terrestre e il 5% dell'area marittima, facendo calare gli spazi a disposizione per la ricerca di idrocarburi a disposizione del 50% nel primo caso e addirittura dell'89% nel secondo.
Ma sul gas pensare che tutto nasca solo con l'ascesa al governo dei grillini è fuorviante. “L’inaffidabilità e l’ambientalismo ideologico hanno un costo salato" a prescindere, ha argomentato la sottosegretaria del Ministero della Transizione Energetica Vannia Gava (Lega). "Lo dimostra", sottolinena l'onorevole del Carroccio, "la penale di 190 milioni che lo Stato italiano, cioè tutti noi cittadini, dovremo pagare alla società titolare dal 2014 della concessione di Ombrina Mare, in Abruzzo, che avrebbe dovuto sfruttare un giacimento di gas ma che è stata fermata”. E il nuovo fronte dei rigassificatori mostra che la partita è pronta a espandersi e si vede il dualismo del Paese: a Ravenna il progetto di un nuovo rigassificatore nel quadro di una strategia chhe porterà Roma a poter accogliere 32 miliardi di metri cubi di Gnl annui dai 17 attuali ha il sostegno del sindaco Michele De Pascale e di un tessuto imprenditoriale attento alle opportunità, a Piombino il rigassificatore galleggiante di Snam, che dovrebbe consentire l’importazione di 5 miliardi di metri cubi all’anno, è oggetto di una compatta opposizione sociale e dell'inseguimento tra forze politiche per ottenere il centro della scena in una battaglia locale ma di risvolto nazionale. E intanto le bollette volano.
Il dilemma del nucleare
Un secondo punto è quello del nucleare. Risorsa assai discussa in termini di utilità, convenienza e garanzie contro la crisi energetica, ma su cui il dibattito dovrebbe essere in primo luogo di carattere industriale, programmatico, strategico. E invece sul fronte del nucleare torna in campo con forza il partito del "no" a prescindere.
Lo segnala con attenzione un recente manifesto della coalizione Verdi-Sinistra Italiana, candidata come lista unita nel campo del centrosinistra alle prossime politiche. Al suo interno gli ecologisti attaccano la proposta di Carlo Calenda, leader della coalizionne Azione-Italia Viva, e del centrodestra di costruire nuove centrali nucleari indicando su una mappa i progetti previsti dai piani dei due poli. Sono indicati quattordici siti precisi, dagli ex centri nucleari italiani come Caorso, presso Piacenza, e Trino Vercellese, a altre cittadine: la sarda Oristano, la molisana Termoli, la veneta Chioggia tra queste. Il fine è chiaro: mostrare la pericolosità del nucleare paragonando ognuna di queste centrali a una "bomba" per gli abitanti dei paesi in questione. Un appoggio esterno al partito del "no a tutto" è arrivato poi dall'ex Ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio in un'intervista a La Notizia. Pecoraro ha dichiarato che il tema nucleare non si dovrebbe porre nemmeno perché "nessuna regione è disponibile a ospitare una centrale nucleare e nemmeno un deposito di scorie quindi mi sembra tutto infattibile".
Lo spreco dei rifiuti
Un altro ministro dell'Ambiente del passato ben più pragmatico, Corrado Clini, titolare del dicastero ai tempi del governo Monti, ha invece sottolineato la problematica legata "all’incredibile gestione dei rifiuti di mezza Italia" e ai suoi effetti sulla crisi energetica in un editoriale su Formiche. "Non solo", nota Clini, "perché dal 2015 abbiamo pagato alla Commissione europea una multa di 450 milioni di euro per la malagestione dei rifiuti della Campania, ma anche perché i nostri rifiuti sono esportati a caro prezzo (fino a 300€/tonnellata) in Paesi europei che li utilizzano per produrre elettricità e calore, perché in mezza Italia l’uso energetico dei rifiuti non sarebbe sostenibile". E questo, per una grande potenza dell'economia circolare come l'Italia rappresenta uno smacco.
Sui termovalorizzatori necessari a smaltire i rifiuti e potenzialmente in grado di diventare hub per la generazione energetica l'ambientalismo ideologico va in testacoda, come dimostrato dal litigio interno ai Verdi italiani che vede il coordinatore Angelo Bonelli favorevole all'impianto a Roma contro il parere del suo stesso partito, tra cui la candidata nella Capitale Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente. L'ambientalismo ideologico denuncia i presunti danni ambientali degli impianti che bruciano i rifiuti ma ne trascura totalmente i dividendi in ogni campo, compreso paradossalmente quello per la sostenibilità. Da Brescia alla Sardegna, dalla Capitale all'Emilia, negli ultimi anni il braccio di ferro sui termovalorizzatori ha portato gli ambientalisti del no a posizioni kafkiane sulla base di un pregiudizio ideologico verso qualsiasi cosa possa avere un vago sentore di industria o applicazione concreta di una sinergia tra mondo energetico, transizione e sviluppo.
Sintesi di un problema che prima che economico appare culturale: un timore del progresso e della gestione delle sfide del futuro che si basa su pregiudizi ideologici anacronistici. E che danneggiano la coesione economica e sociale del Paese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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