Usa e Ue avvertono la Siria: «Non aiutate gli hezbollah»

Washington: «Tutti devono rispettare l’embargo sulle armi al Partito di Dio, soprattutto Damasco»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Monta il livello delle polemiche e degli scambi di accuse fra l’Occidente e la Siria, particolarmente dopo che il governo di Damasco ha sollevato obiezioni all’eventuale dispiegamento alla propria frontiera delle forze dell’Onu in arrivo nel Libano. La misura è stata definita dai siriani «inaccettabile, perché noi e il Libano siamo due Paesi sovrani che non sono mai stati in guerra l’uno con l’altro» (mettendo da parte, si capisce, i quasi vent’anni di occupazione militare del Libano, sia pure con scopi di «pacificazione e mediazione» da parte di truppe di Damasco).
Se dunque i caschi blu, chiamati a costituire un «cuscinetto» nel Libano meridionale, cioè alla frontiera con Israele, dovessero estendersi fino all’altro confine, la Siria ha fatto sapere che non reagirebbe soltanto a parole ma potrebbe ricorrere a rappresaglie di tipo economico. Chiudendo, ad esempio, la frontiera con il Libano, l’unica terrestre di Beirut a parte quella con Israele, il che comporterebbe una specie di embargo economico, aggravando ulteriormente le sofferenze e l’isolamento del Libano, che già soffre, oltre che dei postumi della guerra, del continuato blocco navale israeliano: si chiuderebbero dunque le vie di terre oltre a quelle di mare.
Non solo, ma il dittatore siriano Assad potrebbe ricorrere anche all’embargo sulle forniture energetiche, mettendo così Beirut definitivamente in ginocchio. Il controllo dell’Onu a questo confine non è autorizzato esplicitamente nella risoluzione 1701 recentemente approvata; ma non vi si trova però neppure una esplicita esclusione e si sa che Israele, con l’appoggio americano, considera molto importante che si tenga sotto controllo un’area come quella della frontiera siro-libanese da cui quasi certamente entrano nel Libano i missili forniti dall’Iran e destinati agli hezbollah. Può darsi anche che lo Stato ebraico abbia ricevuto da Washington qualche specifica assicurazione in proposito.
Fatto sta che la reazione a questa minaccia è stata immediata e molto negativa in quasi tutte le capitali occidentali. Dagli Stati Uniti è partito un monito. «Tutti i Paesi hanno l’obbligo - ha detto Gonzalo Gallegos, portavoce del Dipartimento di Stato - di rispettare l’embargo sulle armi; a maggior ragione la Siria, che è l’unico Paese, accanto a Israele, a confinare con il Libano». Le obiezioni di Damasco sul disarmo dei guerriglieri del Partito di Dio sono state definite «ridicole» da Gallegos.
In modo analogo si sono espressi i governi tedesco e francese. «Al momento attuale - ha detto il cancelliere Angela Merkel - i segnali che riceviamo dalla Siria sono assai poco costruttivi». Il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy ha messo in guardia Damasco dalla tentazione di «cercar di approfittare del conflitto in Libano per riproporsi sulla scena internazionale e sottrarsi all’inchiesta sull’omicidio dell’ex premier di Beirut Rafiq Hariri». Più sfumato il linguaggio di Chirac: «La Siria è un Paese di antiche tradizioni, una nazione che conta e che merita rispetto. Ma è anche vero che in questo momento i comportamenti dei suoi governanti non ispirano fiducia».
Ma le intenzioni che contano sono, come sempre, quelle degli Stati Uniti, non soltanto perché sono una superpotenza, ma anche perché hanno da tempo la Siria nel mirino. Hanno chiuso, dopo il delitto Hariri, tutti i canali diplomatici con Damasco. Hanno rifiutato di consultarsi con i siriani al culmine della crisi libanese. I diplomatici Usa hanno perfino evitato di metter piede nel Paese, imitati dagli alleati principali. A rompere questo assedio sarà il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan in arrivo a Damasco per consultazioni.


Il regime continua ad essere sulla lista nera di Washington, anche se non come parte dell’Asse del Male e gli ideologi neoconservatori non hanno certo rinunciato, a cominciare proprio da Damasco, la nuova serie di «abbattimento delle dittature» come primo passo per l’allargamento della democrazia nel Medio Oriente.

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