Ma per gli Usa il regime non crollerà subito

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Fresco ottantenne e da una decina di giorni considerato in fin di vita, il dittatore ha raccomandato ai suoi fedeli e sudditi di essere «ottimisti», ma di «prepararsi a delle brutte notizie». Fidel parlava evidentemente del proprio decesso, ma le sue parole possono avere anche un altro significato, che hanno avvertito per primi i profughi anticastristi che popolano la Florida meridionale. La brutta notizia per loro non sarà evidentemente la morte del nemico giurato, bensì gli sviluppi possibili del dopo-Castro. Nel senso che non è più così certo come ancora dieci o cinque anni fa che, subito dopo il funerale di Fidel, il regime che egli ha creato e mantenuto con pugno di ferro per 48 anni si squagli come neve al sole dei Caraibi (ovvero, nelle parole di un suo parente, Lincoln Diaz-Balart, che si è rifugiato da tempo negli Usa e ora è deputato repubblicano, «come una zolletta di zucchero in un bicchier d’acqua»).
Il castrismo, invece, potrebbe sopravvivere a Castro. Non, o almeno non a lungo, il suo regime, e tanto meno la sua «economia della povertà», bensì qualcosa di più pericoloso: la sua immagine, il suo mito. A Castro, insomma, potrebbe toccare una sorte simile a quella del Che Guevara. Se fosse solo nel senso commerciale, cioè di icona delle t-shirt dei giovani borghesi, poco male; ma i pessimisti - ce ne sono perfino tra i cubani di Miami - temono che il mito possa contribuire a prolungare la realtà e a ritardare, per esempio, il loro ritorno nella patria agognata. Non è neppure, evidentemente, quello che si augura il governo di Washington, che lo ha espresso anche abbastanza apertamente: per esempio nella parole di Condoleezza Rice che, alla prima notizia della malattia, ha invitato a pregare, ma non esattamente per la guarigione del dittatore.
Le autorità Usa, naturalmente, si preparano a tutte le eventualità, compresa quella che Fidel torni fra qualche tempo, magari anche solo in un ruolo simbolico, alla guida dell’isola in cui si sta consolidando già, a quanto pare, il potere del fratello Raul. Meno imminente di qualche tempo fa appare invece l’altra eventualità, quella di una immediata disintegrazione non soltanto del regime comunista, ma anche di quel che è rimasto della società cubana. Le condizioni ci sarebbero tutte, o quasi. Cuba non ha mai smesso di essere quella dello slogan onnipresente sui suoi muri: «Socialismo o muerte» e della miseria che ne deriva; però negli ultimi anni quest’ultima ha dato segno di potersi attutire. Per due motivi: una intuizione proprio di Raul Castro e una «mano» provvidenziale dall’estero.
Il fratello-delfino ha praticamente «inventato», e imposto, la carta del turismo, compreso il più discutibile, quello sessuale. Così valuta è affluita nell’isola, quasi esclusivamente attraverso visitatori europei, come tali indenni dall’embargo di Washington, inasprito di nuovo durante la presidenza Bush dopo gli accenni di disgelo dei tempi di Clinton. Anche il secondo ha un nome e cognome: Hugo Chavez, che sta risuscitando il castrismo in Venezuela.

Dovrebbe essere lui il primo straniero ammesso al capezzale di Fidel per fargli gli auguri di compleanno. Da tempo egli pompa dollari nell’economia dell’Avana, dirottandole parte die profitti del petrolio. Come l’Urss faceva, finché non andò in bancarotta, con lo zucchero.

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