Il vagabondo Krasznahorkai nei labirinti della mente

Dal Buddha storico all'11 Settembre all'illuminazione di Gagarin: le peripezie dello scrittore ungherese

Il vagabondo Krasznahorkai nei labirinti della mente

L'apologo dell'«asino di Buridano» è fra le storielle più divertenti, inquietanti e profonde della storia della filosofia (e della scienza). C'è un asino che ha fame. E ci sono due mucchi di fieno piuttosto vicini a lui, entrambi alla stessa identica distanza da lui. L'asino non ha motivo per scegliere con quale mucchio di fieno sfamarsi, e muore di fame. Ma questo apologo paradossale è passato alla storia come di Ioannes Buridanus (1295/30 - 1361, anche se non è vero, l'aveva già usato Ovidio nelle Metamorfosi, a proposito di una tigre...) mentre è, di fatto, contro di lui. Perché lui, nominalista in tema di logica e aristotelico in tema di fisica, sosteneva che «voluntas est intellectus et intellectus est voluntas», e che quindi al povero asino la voglia di mangiare la dà il suo intelletto, ma se il suo intelletto non vede differenze fra l'uno e l'altro mucchio di fieno, non attiva la sua volontà... Asino a parte, ciò che più premeva a Buridano era la teoria dell'«impetus», che anticipa la meccanica classica, e il concetto di moto per inerzia.

Anche allo scrittore ungherese László Krasznahorkai interessa l'impetus del vivere, e ancor più il moto per inerzia che è, in senso figurato, l'impetus dello scrivere restando inerti. Krasznahorkai scrive che «non è possibile avviarsi al contempo in due direzioni opposte, e come si potrebbe mai fare una cosa del genere, è appunto questa la domanda, e questa rimane la questione che lo trattiene e lo lega qui, e così egli se ne sta qui, rimane qui, come una nave sfasciata che si incaglia in una secca, se ne sta fermo e ingobbito sotto il peso delle sue pesanti valigie, sta fermo, non si muove, e così, da fermo, si avvia nel mondo, alla cieca, in una direzione qualsiasi, non ha più importanza quale, parte senza muovere un muscolo, e quando è ormai lontano e ha iniziato il suo vagabondaggio alla cieca nel mondo, mentre la sua figura in realtà immobile e ingobbita diventa quasi una statua scolpita nel luogo che non riesce ad abbandonare, la sua sostanza appare invece su ogni strada: viene avvistato di notte e di giorno, lo si riconosce in America e in Asia, lo si incrocia in Europa e in Africa, vaga per le montagne, vaga per le valli, vaga lungo i fiumi, cammina e cammina, e non smette mai di vagare in questo modo».

Questo brano è tratto dal racconto-saggio filosofico Vagabondaggio da fermi che apre la raccolta Avanti va il mondo (Bompiani, pagg. 350, euro 20, traduzione di Dóra Várnai). E il secondo racconto-saggio filosofico, Sulla velocità, dal parossistico dinamismo futurista, tratta di un altro paradosso, anche più paradossale di quello buridaniano: c'è un tale che corre all'impazzata perché vuole andare più veloce della Terra che ruota incessantemente, perché lui sostiene che «la Terra è il pensiero». E poi c'è il terzo, che non tratta di fisica o di teoria della conoscenza, ma della «condizione umana», come nel romanzo di Malraux: «invano cerchiamo, presi dalla nostra delusione, di allontanarci da noi stessi, di dirigerci verso qualche meta più nobile, qualche potere superiore, i nostri tentativi finiscono sempre nel peggiore dei modi. Invano, infatti, vogliamo parlare della natura, la natura non vuole questo, invano vogliamo parlare del divino, neanche il divino vuole questo, e più in generale: invano vogliamo parlare di qualcosa di diverso da noi stessi, non ci riusciamo, perché l'unica cosa di cui possiamo parlare è la condizione umana nella storia, quel qualcosa che non cambia mai, la cui essenza è un riferimento così solleticante solo per noi, altrimenti, dal punto di vista del divino altrimenti, forse l'essenza umana, da tutta l'eternità e per sempre, è davvero questa: non ha importanza».

Poi troviamo, in Come sarebbe bello, il sogno di un'ideale accademia degli intelletti, una sorta di simposio platonico che prenda il titolo «Convegno sulla teoria del paesaggio». E, in Al più tardi a Torino, ricordando Nietzsche che abbraccia il cavallo frustato dal cocchiere, l'impossibilità di vivere senza una morale. E in Avanti va il mondo irrompe la Storia con la sua propensione per le apocalissi, in questo caso quella dell'11 Settembre. E poi, in La costante di Teseo, c'è il ruolo dell'intellettuale: imprigionato in un labirinto-prigione, ottiene dal Potere di cui è ostaggio la possibilità di tenere tre discorsi pubblici, il primo sulla «tristezza» (dove riaffiora l'episodio della balena circense di Melancolia della resistenza, romanzo di Krasznahorkai del 1989) che colpisce con l'autocommiserazione, con il cambiamento di tonalità in musica e con l'amore; il secondo sulla ribellione: «il buono non può mai raggiungere il cattivo, perché tra il bene e il male c'è un divario senza speranza»; il terzo sulla «proprietà»: «mentre a voi, secondo la mia supposizione, pesa la mancanza di sicurezza nell'universo, a me pesa la mancanza di senso della bellezza nel mondo umano». E poi sono Cento persone in totale, intese come cento generazioni, quella che ci separano da Siddhartha Gautama , il Buddha storico, «il più originale filosofo della terra». E infine, a chiudere la sezione «Parla», il grande mistero del Tempo, che in fondo mistero non è, in quanto, purché ci si ponga sempre e ovunque Non sulla strada eraclitea, «ricordare - è l'arte del dimenticare».

Se dopo questa sequenza di grandi temi che da sempre determinano l'impetus e il moto per inerzia della letteratura di cui dicevamo sopra, volete passare, dal Krasznahorkai filosofo al Krasznahorkai narratore, ecco la sezione «Racconta», dove spiccano, fra molti, alcuni personaggi. In Nine Dragon Crossing siamo a Shanghai, dove il groviglio di autostrade che porta quel nome, e che ci ricorda le claustrofobiche Carceri dell'incisore Giambattista Piranesi, inghiotte un ubriaco. In Banchieri siamo a Kiev, dove, con tetra metafora, le beghe di alta finanza che appassionano due uomini avvicinano pericolosamente il terzo, interessato invece alla cattedrale di Santa Sofia, alla «Zona», cioè la Zona di alienazione dell'ex-centrale nucleare di Cernobyl', dove nel 1986 esplose un reattore. In Goccia d'acqua siamo in India, a Varanasi, dove un turista estenuato dalla folla, dai miasmi e dal caldo, viene catturato in riva al Gange da un grassone che gli provoca, a un tempo, repulsione e ammirazione con un lungo discorso in cui somma le nozioni di chimica alla sacralità del fiume.

E in Quel Gagarin torniamo nell'Ungheria dell'autore, dove un anziano, ospite di una casa di riposo e in cura con psicofarmaci, dopo aver studiato tutti i testi e le testimonianze sulla fine del «Primo Uomo» che il 12 aprile 1961 volò nel cosmo, è convinto di aver colto il motivo della sua autodistruzione alcolica.

Il motivo è la bellezza, una bellezza infinita, quella che il povero Jurij Alekseevic (schiantatosi a terra con un piccolo aereo da caccia sette anni dopo l'impresa, a 34 anni) vide per la prima volta nella storia dell'Umanità. Ciò che Gagarin vide, pensa l'anziano, fu il Paradiso. Quel Paradiso che segna la supremazia della religione, di tutte le religioni, sulla scienza. E che il mondo non capì o non volle capire.

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