Quella vecchia sacrificata per non pesare sui giovani

Un rito crudele, una madre che lo rispetta e un figlio che si ribella. È leggenda, ma sembra cronaca...

Quella vecchia sacrificata per non pesare sui giovani

Non lasciamoci fuorviare dal record mondiale dei centenari, che sono 92.132 (dato aggiornato all'1 settembre 2023): anche il Giappone, come il resto del mondo, non è un Paese per vecchi. «In Giappone ogni anno 68mila anziani muoiono in solitudine» (suicidi inclusi), titolava l'Ansa tre mesi fa. Il dato arriva dall'Agenzia nazionale di polizia, e la stessa fonte a inizio agosto ha reso noto che nel Sol Levante il 20 per cento della popolazione carceraria è composto da over 65. Fra i loro reati domina di gran lunga il taccheggio. «Se ti arrestano - ha spiegato il ricercatore Shinko Yuki - almeno dormi al caldo, fai tre pasti al giorno e ricevi le cure mediche del caso». Insomma, i fortunati 92.132 circa che hanno superato la boa del secolo restano mosche bianche, geneticamente parlando, ma non avrebbero potuto arrivare dove sono arrivati se non fossero stati circondati da figli e nipoti che si prendono cura di loro. Perché va bene la dieta equilibratissima, va bene la meditazione, va bene l'esercizio fisico, va bene il tenere allenato anche il cervello, ma quelle lunghissime vite sono eccezioni che confermano la regola, cioè il grave problema sociale della gestione della terza, se non quarta età. Dal 2011 al 2021, segnala uno studio recente condotto da Yuhara Etsuko, professore di assistenza sociale all'università Nihon Fukushi, in Giappone ogni 8 giorni un anziano è stato soppresso da un membro della sua famiglia. In alcuni casi quest'ultimo si è poi ucciso. La chiamano «stanchezza del caregiver», vale a dire di chi si prende cura del vecchio congiunto.

Di fronte a questi fatti incontrovertibili, poteva mancare chi proponesse la soluzione finale alla questione? No, non poteva mancare. Quel tale si chiama Yusuke Narita, detto così, all'americana, con il nome prima del cognome, anche se è giapponese, perché è assistant professor di Economia a Yale. Ha 38 anni, la classica faccia stralunata da nerd e «progetta algoritmi decisionali in ambito politico e aziendale, con particolare interesse per le politiche educative», recita la scheda di quella prestigiosa università. A lanciarlo, non fuori dalla finestra del suo ufficio ma nell'oceano inquinato della Rete, è stato un articolo che parlava di lui apparso sul New York Times il 12 febbraio 2023. Bene, qual è la sua geniale idea? Semplice: il suicidio di massa dei vecchi, un bel seppuku collettivo, come facevano, ma individualmente, fino al 1868, anno in cui la pratica venne ufficialmente bandita dal governo, i samurai che si erano macchiati di una grave colpa, oppure che rischiavano una morte disonorevole o ancora che erano rimasti orfani del loro signore. Non è una fake news, abbiamo controllato.

E abbiamo controllato dopo aver letto un libricino dal titolo che fa pensare alle atmosfere soffuse e struggenti di Kawabata Yasunari, ma che è tutt'altro. C'è un solo modo per definirlo: saggio di etnologia che sfocia in racconto dell'orrore. Le ballate di Narayama (ora edito da Adelphi, pagg. 115, euro 12, traduzione di Giorgio Amitrano) è datato 1956 e l'ha scritto, a 42 anni, un parvenu nella società letteraria giapponese del tempo, senza padri nobili e senza confortevoli entrature: Fukazawa Shichiro. Era e si definiva un chitarrista, prevalentemente da music-hall, malaticcio, evitò l'arruolamento per la Seconda guerra mondiale, e tutto il resto che ci è giunto su di lui potete leggerlo nella postfazione di Amitrano, anch'essa dal titolo poetico: «Guardando la luna che splende sul monte Obasute». Attenzione, Obasute, o Ubasute, è l'altro nome del monte Kamuriki, nella prefettura di Nagano, e Obasute (o Ubasute)-yama significa letteralmente «montagna dove si abbandonano donne anziane».

Ed eccola qua, la donna anziana della quale ci parla Fukazawa, personaggio in parte ispirato alla figura di sua madre. Si chiama Orin, è vedova, sui settanta, abita in un poverissimo villaggio di montagna in un tempo indefinito, con quattro nipoti e un figlio quarantenne, Tatsuhei, il suo caregiver, si direbbe oggi. Per la verità Orin non avrebbe bisogno di un figlio-badante, è ancora in gamba, anzi è la vera capofamiglia, ma conosce il suo destino: «andare sul Narayama», andarci per esservi abbandonata, a morire. Lo sa e lo accetta, addirittura ne è entusiasta, non come altri suoi coetanei che tentano di sfuggire a quella legge non scritta, un classico del folklore giapponese. A un certo punto, i vecchi devono farsi da parte, levare il disturbo. Soprattutto in un contesto in cui mettere insieme il pranzo con la cena è un'impresa quotidiana e un pugno di riso bianco ha un valore pressoché inestimabile. Fra l'altro, l'inverno è alle porte, e ai sei si aggiungono la seconda moglie di Tatsuhei e la fidanzata del nipote maggiore, oltretutto incinta. Come sfamare otto-nove bocche? Urge chiuderne una.

Fino a pagina 67 abbiamo letto, come dicevamo, un saggio di etnologia sull'antico Giappone rurale, con giusto una spolverata di neve romanzesca e Orin assoluta protagonista (da notare il particolare splatter di lei che si dà colpi di pietra sui denti - sanissimi - per apparire agli occhi di tutti più vecchia, e dunque più meritevole di «salire al Narayama»). Ma ora siamo al punto in cui Mishima Yukio, lettore e amico di Fukazawa, cominciò a entrare in estasi orrorifica: «Ho continuato a leggere trattenendo il respiro fino a quel climax tremendo, e quando ho finito sono stato colto da una profonda emozione: sentivo di avere scoperto un capolavoro assoluto. Tuttavia, era un capolavoro sgradevole», confessa nel saggio Che cosa è un romanzo del maggio '68. Ora inizia non la discesa, ma l'ascesa agli inferi. Orin, come da rituale, non apre più bocca. Sulle spalle del figlio, come comanda l'uso consolidato, ascende al Narayama in un contesto da bolgia dantesca, con scheletri e cadaveri in decomposizione che diventano banchetti per i corvi. Così finisce chi sale al Narayama portatovi, come un sacco di rifiuti indifferenziati, dal parente più prossimo. Eppure, per Orin quello è un paradiso: sta andando a far visita a un dio, sta seminando affinché le persone che lascia possano raccogliere. L'eretico è Tatsuhei, che infrange le regole, che viene sopraffatto dall'amore.

Oggi no, oggi è più difficile, in Giappone e altrove, essere sopraffatti dall'amore.

Oggi il Narayama è la galera che si chiama casa di riposo, il deserto affettivo che si chiama solitudine, la spada di Damocle che i telegiornali, organi del potere, chiamano «preoccupante calo demografico», oppure «collasso del sistema previdenziale». Oggi è più complicato anche morire.

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