Per reinventare un Ottocento letterario in Italia, non si può non tener conto del nome più illustre: Alessandro Manzoni. La scintilla narrativa del nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso (Marsilio) parte da un'ipotesi, fantasiosa fin che si vuole, che però ha molto a che fare con la vita e l'opera dello scrittore lombardo.
Zaccuri immagina per l'autore dei Promessi sposi un destino diverso, un'altra vita. La sua è un'operazione ucronica molto interessante. L'anno è il 1841, la città Milano, il quartiere Brera, il palazzo quello di Giulia Beccaria, figlia di Cesare, ormai anziana ma sempre dotata di uno spirito libero e illuminista. A casa sua si insedia un tal barone di Cerclefleury, francese giramondo e sedicente seguace di Franz Anton Mesmer, il medico inventore della cura del «magnetismo animale» (mesmerismo). L'affascinante barone stabilisce un rapporto d'amicizia col contabile di casa Beccaria, Evaristo Tirinnanzi, trovatello allevato da Giulia. Allo stesso tempo, attrae le attenzioni di molte donne, sia nobili e danarose, sia di umile condizione. A pochi passi dal palazzo e dal quartiere aristocratico si estende però la suburra di Bottonuto, dove regnano il vizio e la delinquenza. Il timido Tirinnanzi è attratto in un giro sordido di bische, che prospera sotto il bastone di un certo Faggini, essere tanto grottesco quanto crudele.
Di questo libro colpirà lo stile linguistico, sapientemente ricreato da Zaccuri sulla falsariga della scrittura colta di due secoli fa. Il modello del romanzo ottocentesco come lo conosciamo, da Dickens a Dumas padre (e naturalmente lo stesso Manzoni che, come ci hanno insegnato a scuola, è il padre del romanzo storico in Italia) è qui evidente, ma declinato secondo una concezione moderna di solida verosimiglianza. È dichiaratamente una storia parallela e di pura invenzione, tuttavia incrociata a fatti storici certi. Ma è giocata su diversi piani, e in questo sta soprattutto il suo pregio. La vicenda si sviluppa intorno alle figure contrastanti dei protagonisti, l'intrigante barone, la vispa servetta, la non più giovanissima e languida contessa Sebregondi e più che altro il Tirinnanzi, con quel nome affibbiatogli in orfanotrofio, l'insicurezza dovuta alle sue origini oscure e l'ombra lunga di un doppio, una personalità che affiora di tanto in tanto inducendolo alla scrittura automatica di un brogliaccio denso di spunti narrativi e poetici. Un lato esteriore da mostrare in società, uno da tenere per sé: questa sembra la sorte di ogni personaggio di questa storia, il che ce lo fa sentire affine, essendo in fondo la stessa sorte di ciascuno di noi, animali sociali difettosi.
In una nota alla fine del libro, Zaccuri racconta la genesi di questo lavoro e la sua fascinazione per l'opera manzoniana, sia sotto l'aspetto linguistico, dunque estetico, sia per quanto riguarda l'etica. Dopodiché, nelle sue pagine avvertiamo molta attenzione al tema dell'identità, a partire dal titolo stesso, preso a prestito da un sonetto giovanile di Manzoni, che si conclude con questi versi: «Poco noto ad altrui, poco a me stesso:/ Gli uomini e gli anni mi diran chi sono». Sarebbe da chiedersi fino a che punto l'identità di un narratore in quanto uomo o in quanto artista possano coincidere.
Infine, non sfugge uno scambio di battute, tutt'altro che casuale, a pagina 183,
fra chi sostiene che i romanzi «son sciocchezze di donnicciuole», e chi risponde essere sua convinzione «il fatto che i romanzi svolgano oggidì un compito ragguardevole assai». Ed è a quest'ultimo che vogliamo dare ragione.
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