
Nel 2013 varcai la soglia dell'Universidad Nacional Mayor de San Marcos, a Lima. Era luglio potrei sbagliarmi. Sessant'anni prima, in quella stessa università, faceva ingresso Mario Vargas Llosa. Figlio di borghesi, nato ad Arequipa nel marzo del '36, Vargas Llosa crebbe con i nonni materni: il padre, alla sua nascita, aveva preferito dileguarsi con l'amante, tedesca d'origine. Il suo avo, Juan de la Llosa y Llaguno, maestro di guerra, si era trasferito in Perù dai Paesi Baschi alla fine del XVII secolo: cercava gloria la ottenne. Feci una lezione su Kaputt, il romanzo tellurico di Curzio Malaparte; chiesi di omaggiare Mario Vargas Llosa. Gli studenti rapidi, sorridenti, vivi, vivaci citarono La città e i cani, il primo romanzo di Vargas Llosa, uscito cinquant'anni prima. Preferisco ancora la folle agiografia di Antônio Conselheiro, il predicatore brasiliano raccontato in La guerra della fine del mondo (1981). Più tardi, durante una cena ordita per l'allora Ambasciatore italiano in Perù, qualcuno dei papaveri annunciò il proverbiale arrivo di Vargas Llosa. Tremai di gioia. Qualcosa un ripensamento, un'improvvisa nausea gli impedì di esserci.
Nel discorso d'insediamento all'Academie française occupava il seggio 18, che fu di Tocqueville , tenuto nel febbraio del 2023, Vargas Llosa rievocò gli anni universitari. Frequentava durante il governo militare di Manuel A. Odría. «Fu allora che incontrai, per pochi minuti, Manuel Esparza Zañartu, che diventò il personaggio centrale del mio terzo romanzo, Conversazione nella Cattedrale: gli chiesi, insieme ad altri studenti, di poter fornire cibo e vestiti ai nostri compagni universitari detenuti». In quel discorso così bello da meritare una pubblicazione in Italia Vargas Llosa racconta che furono «gli esistenzialisti francesi» Sartre, Camus e Marleau-Ponty a convincerlo ad iscriversi al Partito comunista peruviano. La fola durò per un anno, lo scrittore optò poi per il Partido Demócrata Cristiano. «Imparavo il francese leggendo instancabilmente gli scrittori francesi. Volevo scrivere: per questo, sognavo la Francia». In effetti, dal 1960 esaurita la borsa di studio a Madrid Vargas Llosa si trasferisce a Parigi: è lì che si dà al romanzo. «Che paradosso: soltanto in Francia mi scoprii uno scrittore irrimediabilmente peruviano e latinoamericano». A Parigi, andava ad ascoltare i discorsi di André Malraux; studiava Gustave Flaubert «senza di lui non sarei lo scrittore che sono, non avrei scritto ciò che ho scritto» (si veda: M. Vargas Llosa, L'orgia perpetua. Flaubert e Madame Bovary, Edizioni Settecolori, 2025). Gli piaceva Céline «sommo scrittore, ma uomo vile» , sapeva che «una vita senza letteratura è una vita orribile, sinistra, spoglia delle esperienze più profonde, nient'altro che un'intollerabile routine fatta di obblighi quotidiani e di inutili riti, senza promessa di remissione». Si è sposato due volte: la prima con una cugina, Julia Urquidi Illanes, di dieci anni più grande; dalla seconda, Patricia, ha avuto tre figli; nel 2015 si è unito a Isabel Preysler, già modella e moglie di Julio Iglesias.
Erede dell'ultima stagione dei grandi romanzieri occidentali, Mario Vargas Llosa era benedetto dal dono dell'intelligenza. Più che a Gabriel García Márquez che detestava, e col quale fece a pugni perché l'autore di Cent'anni di solitudine fece un complimento di troppo alla moglie di Vargas Llosa , il suo carisma lo apparenta a Thomas Mann e a Milan Kundera. Per il Círculo de Lectores, alla fine degli anni Ottanta, curò una collana dei più bei libri del Novecento; scelse Lolita e Il dottor Zivago, Il lupo della steppa di Hesse e La casa delle belle addormentate di Kawabata. Nella lista, compaiono Elias Canetti, Saul Bellow e Il gattopardo; sono assenti, ingordigia dell'orgoglio, autori in lingua spagnola. Nel 1981, intervistò Jorge Luis Borges, l'unico autore sudamericano che riteneva al suo livello e che aveva preferito evitare il romanzo. «Sono un vecchio anarchico spenceriano; credo che lo Stato sia un male, ma è un male necessario. Se fossi un dittatore, mi dimetterei tornando alla mia modestissima letteratura, perché non ho soluzioni da offrire»: a Vargas Llosa l'affermazione non piacque; entrambi amavano gli avventurieri, o meglio, «la sovranità dell'individuo».
I suoi Romanzi sono stati raccolti nei Meridiani Mondadori in due volumi, nel 2017, per la cura di Bruno Arpaia. Parlando di Tempi duri edito da Einaudi nel 2020, ruota intorno al colpo di stato in Guatemala del 1954 Vargas Llosa disse che «I cattivi, in letteratura, sono più interessanti dei buoni. I paesi che progrediscono, quelli dove c'è giustizia sociale, producono brutti libri. I romanzieri svizzeri sono alla disperata ricerca di catastrofi». Sembra la battuta di Orson Welles/Harry Lime, ne Il terzo uomo (1949), il film di Carol Reed scritto da Graham Greene, scrittore amato da Vargas Llosa.
Cinque anni fa, dalle colonne di El País, ragionando intorno al Covid, Vargas Llosa scrisse che «se la morte non esistesse, la vita sarebbe un mortorio infinito, senza rischio, né mistero; una ripetizione cacofonica di esperienze, fino alla sazietà più raccapricciante e ottusa».La scorsa estate tentai di intervistarlo. Sforzo vano. Dissero di una cristallina reticenza, di un lungo viaggio in barca. Lo scrittore si stava preparando alla morte, come fanno i re, inabissandosi nell'azzurro.
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