Si può partire dal dato archeologico. Proprio per la sua ferocia. Siamo a Nataruk, a pochi chilometri dal lago Turkana, in Kenya. Da uno scavo emergono i cadaveri di un gruppo di cacciatori-raccoglitori di circa 10mila anni fa. Sono stati sterminati, probabilmente da un gruppo rivale. I corpi sono sparsi e insepolti. Alcune sono indubbiamente delle esecuzioni. Alcuni corpi, dalla postura risultano essere stati chiaramente legati. Tra essi anche una donna all'ultimo stadio della gravidanza. Prima di ucciderla le hanno spezzato le ginocchia. È una delle prove archeologiche, ne sono emerse anche in Germania e in Croazia, di pulizie etniche, di massacri scientifici di gruppi rivali che risalgono alla preistoria e a ben prima della lotta per le risorse agricole che, a lungo, gli storici hanno visto come una molla fondamentale per spingere gli esseri umani verso la guerra.
No, la guerra, che è decisamente qualcosa di più che uno scontro tra singoli o un litigio (col morto) tra gruppi è nata molto prima. Le tracce più antiche ci parlano anche di scontri tra Neanderthal e Sapiens. Scontri che i Sapiens, meno forti, potrebbero aver vinto a partire dalla loro maggiore propensione per le armi da lancio e la preminenza nei numeri delle loro ondate migratorie. Lo studio dei primati, con grande orrore e stupore degli studiosi, ci racconta anch'esso una furente conflittualità anche tra i cugini scimpanzé. Sterminano i gruppi rivali per avere un accesso privilegiato alle risorse. Appena un gruppo ha una ragionevole sensazione di vantaggio sui suoi vicini attacca. E più è forte ed efficiente la collaborazione all'interno del branco, più la ferocia nell'eliminazione dei nemici è sviluppata e letale.
Questi dati e queste osservazioni, che ci portano ad interrogarci in profondità sulla nostra specie, le sue caratteristiche modellate dalla pressione darwiniana prima e dalla storia dopo, sono alcuni dei punti di partenza del saggio Guerra e natura umana (Il Mulino, pagg. 342, euro 29) di Gianluca Sadun Bordoni.
Sadun Bordoni, ordinario di Filosofia del diritto all'Università di Teramo, prova sul tema del conflitto un approccio multidisciplinare. Da un lato c'è infatti la lezione di Tucidide che nel saggio è sempre presente: ovvero la consapevolezza che la guerra è l'ombra della Storia che accompagnerà gli uomini sino a che «la natura umana resterà la stessa». Ma al di là della spiegazione storico scientifica l'autore fa un ulteriore salto cercando di valutare il tema anche in maniera empatica. Senza questa comprensione, scrive Sadun Bordoni che «il fenomeno rischierebbe di sfuggirci nella sua natura più profonda: Clausewitz o Tolstoj?».
Sadun Bordoni non vuole scegliere perché da secoli storici, filosofi, psicologi, ora anche gli etologi si sono dedicati alla comprensione razionale delle dinamiche belliche. Ovviamente nel tentativo di limitare quei conflitti che sembravano sopiti con la minaccia atomica e la Guerra fredda e che ora sono tornati ad esplodere, dall'Ucraina al Medio oriente. Ma la via d'accesso meramente razionale «rischia di consegnarci un referto tanto preciso quanto freddo, che sta alla guerra come il certificato di morte sta alla perdita di una persona cara». L'attenzione all'alone mitico ed emotivo della guerra può invece portare ad una comprensione più profonda da cui poter derivare una più efficace strategia di contenimento.
E alla fine questa strategia del contenimento, pensata come una difficile ed essenziale capacità di guardarsi allo specchio, come specie e come singoli, è per l'autore l'unica possibile. Senza illusioni su idee di «Pace perpetua». Il che è notevole proprio perché Sadun Bordoni è un esperto del pensiero di Immanuel Kant (1724-1804). È proprio questa costante frequentazione del filosofo di Königsberg e della trattatistica illuministica che ha attaccato la guerra in punta di ragione che consente a Sadun Bortoni di prendere atto di quegli argomenti indigesti che rendono quel «Perpetuo» una illusione. A partire anche dalle riflessioni di uno storico come Jacob Burckhardt, lo studioso che meglio di tutti ha delineato l'ambigua linea fra violenza e creatività nel Rinascimento: «Soltanto nella guerra, nella lotta agonistica contro altri popoli, un popolo impara realmente a conoscere tutta la sua energia come nazione, perché soltanto allora essa sussiste». Questa energia però oggi deve fare i conti anche con un'altra energia: quella atomica. Se per un lungo periodo la minaccia della mutua distruzione sotto una pioggia di testate ha raffreddato il Novecento, ora la minaccia resta ma la temperatura degli scontri internazionali sembra essere disgraziatamente in salita.
Ovviamente a questo non si possono cercare soluzioni in un saggio, per quanto ben scritto. Ma la comprensione della guerra come pulsione costante e non solo come cascame delle circostanze o di politiche sbagliate o di calcoli di potenza fornisce una prospettiva interessante. Ci sono istinti collettivi da domare. L'antropologia sta mostrando, in modo sempre più documentato, che la guerra militarizzata rappresenta l'evoluzione di una forma di aggressività proattiva di coalizione, diffusa largamente già presso le comunità di cacciatori-raccoglitori della preistoria, con radici nell'evoluzione dei primati, e che dunque essa è un adattamento evolutivo.
Nella guerra militarizzata, fino ai nostri giorni, continua a prevalere la tendenza alla strategia offensiva, basata su una (presunta) superiorità di forze, secondo un modulo, appunto, presente già nelle guerre premilitarizzate. L'apprendimento culturale, che certo gioca un ruolo, non esclude che tale modulo abbia radici in un'euristica antichissima della specie.
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