
Ai tempi dell'università, il professore di filosofia antica della Sapienza Gabriele Giannantoni amava stupire gli studenti svelando una statistica non comprovabile né smentibile, secondo la quale ogni giorno nel mondo esce un libro su Platone. Non ci stupiremmo se fosse così anche per Caio Giulio Cesare, visto che già in antico prese forma e consistenza una robusta letteratura cesariana (i Commentarii di Cesare medesimo, Nicola Damasceno, Appiano, Cassio Dione, Plutarco, Svetonio e via così), ben prima di Shakespeare e Bertolt Brecht, del cinema e delle serie tivù contemporanee. Ma una domanda rimane: che altro dire, su Cesare, e perché? Necessità e furbizie dell'intrattenimento, forse, che deve cambiare pelle anche se lo fa mantenendosi fedele alle regole demotiche del sangue, del sesso e dei soldi. E Cesare al riguardo si presta meglio dei suoi innumeri odiatori e adulatori, o imitatori, che dalla tarda Repubblica arrivano fino al Novecento mussoliniano (il duce scrisse anche un dramma teatrale su Cesare) passando fra gli altri per Federico II di Svevia, Arrigo VII e Napoleone Bonaparte. Col che siamo all'eterno presente della politica, ormai neppure lontana dall'intrattenimento, al cesarismo come prosecuzione di Cesare con mezzi aggiornati. Strauss è in larga compagnia quando sostiene con parole sue che Cesare, aristocratico vicino ai popolari, fu un disintermediatore talmente impareggiabile che oltre al Senato finì per inimicarsi i tribuni della plebe. Eppure il popolo, i veterani e i soldati, e cioè il nerbo del potere, rimasero quasi tutti dalla sua parte. La congiura contro di lui, meno pasticciata di quanto avrebbe poi sostenuto Cicerone, non nacque in ambienti soltanto pompeiani: fu il prodotto di una possente fazione oligarchica maggioritaria in Senato e minoritaria nei Comizi, ma soprattutto uscita sconfitta sul piano militare. Umiliati sul campo di battaglia di Farsalo, accettarono il perdono e le promozioni doviziose elargite da Cesare, e videro nella sua clemenza un ulteriore attentato alla loro dignitas. Come scrive Strauss: «Catone accusava Cesare di arroganza poiché rivendicava il diritto a perdonare i suoi nemici. Adottando la stessa prospettiva, un altro autore antico riassumeva così il risentimento contro Cesare: Divenne gravosa per quegli uomini liberi la stessa possibilità che egli aveva di far loro dei doni» (Floro). Ma quanto erano davvero liberi, i cesaricidi? Giunio e Decimo Bruto avevano conficcato nel proprio nomen il destino dei regicidi, se pure in assenza di un vero sovrano. Il primo, più noto avversario e poi amico di Cesare, di natura sprezzante ma moderata, si fece consegnare da Cassio e dalla moglie Porcia (figlia di Catone) nel ruolo luminosamente angusto di garante politico dell'assassinio. L'altro, Decimo, luogotenente di Cesare e suo commensale alla vigilia delle Idi, colui che quasi di peso vinse le resistenze del morituro a recarsi in Senato nel giorno fatale, fu un traditore di prima grandezza e misera fama postuma («strega venefica», disse di lui Marco Antonio). Gli altri, ambigui e interessati congiurati, agirono sotto il ricatto dell'insoddisfazione e dell'ingratitudine; ma non si può escludere che alcuni di loro, come in fondo anche Bruto, sentissero in cuore di dover difendere la res publica dall'affronto di una novità giuridica rivoluzionaria: la dittatura perpetua conferita, sì, a Cesare dal Senato, ma da lui evidentemente attesa e agguantata.
Cesare rivoluzionario incauto, è opinione comune. Cesare troppo sicuro di sé per ascoltare le voci crescenti su trame e capovolgimenti d'animi alle sue spalle. Strauss si spinge fino al limite estremo: «Perdonò i suoi nobili nemici senza chiedere in cambio il loro perdono. Risparmiò le loro vite, ma in alcuni casi non le loro terre. Concesse loro i titoli a cui ambivano, riducendone però il potere. La crudele verità è che sarebbe stato più sicuro se avesse ucciso i suoi nobili nemici fin da subito». (Un errore analogo, esiziale secondo Cicerone, commisero poi i cesaricidi lasciando in vita il console designato Marco Antonio; un errore ancor più fatale, secondo Decimo Bruto, avrebbe infine commesso Cicerone medesimo sottovalutando le capacità politiche del sopraggiunto erede Ottaviano Cesare, poi Augusto). Sbagliò, il rivoluzionario Cesare? E fu consapevole nell'errore? Su questo punto ci soccorre la visione di un grande estremista cesariano come Luca Canali, che dopo tante scorribande intorno a Cesare (da preferire sempre, insieme a quelle di Luciano Canfora) ha lasciato a Castelvecchi un ultimo, piccolo legato testamentario messo in ordine e arricchito da Lorenzo Perilli. Canali ammette che Cesare «si lasciò uccidere, per stanchezza o per presunzione di fascino. Ma entro quel cerchio, nella pubblica contesa degli interessi e degli istinti camuffati da princìpi e da ideologie, egli fu forse il più spietato, fulmineo, lungimirante uomo che la Storia abbia avuto». Rivoluzionario, appunto, vindice postgraccano degli italici esclusi dalla partecipazione civica, nipote di Caio Mario (marito della zia Giulia) e perciò amico severo delle plebi urbane, quelle indebitate coi latifondisti («Più al popolo, tuttavia, che ai patrizi egli fu caro, e amatissimo particolarmente dai soldati», Tito Livio); chiaroveggente e inclusivo verso le forze nuove emergenti nelle terre romanizzate della Gallia, in omaggio al principio di scambio tra integrazione culturale e cittadinanza acquisita, talvolta perfino di rango senatoriale (la stulta et barbarica adrogantia che, grazie all'incoraggiamento decisivo giunto poi dall'imperatore Claudio, sarebbe nel tempo divenuta romanità scelta in figure di primissimo conio come Ausonio e Rutilio Namaziano). Ma a quale prezzo tutto ciò? «V'era indubbiamente nel nuovo regime una distruzione della libertà repubblicana: ma quella libertà, che tanto risuonava nei discorsi degli oligarchi, nella pratica dello Stato non esisteva più. E v'era al contrario in quel regime una libertà ben più alta di quella tradizionale: la libertà che avrebbe permesso, e già permetteva, alle classi e alle popolazioni fino allora oppresse dal privilegio della pòlis, un apporto decisivo all'economia e alla cultura dello Stato universale». Canali scivola nel giacobinismo e rimprovera a Cesare, «in luogo del terrore, la clemenza» ovvero «la convinzione di poter saltare, lungo il cammino rivoluzionario, il momento del terrore.
Terrore v'era stato, a Roma, negli ultimi decenni; ma era stato il terrore delle fazioni in lotta per la conquista del potere, e del resto anche durante questa fase di anarchia faziosa Cesare aveva avuto modo di dimostrare il suo equilibrio».
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