Ci vuole talento per fallire come "Il grande Bob"

Dal Simenon americano un roman-dur in purezza. Con tanta nostalgia per la Francia e per Montmartre

Ci vuole talento per fallire come "Il grande Bob"

Dal 1964 al '72 andò in onda uno dei più grandi successi televisivi della storia italiana (e probabilmente non soltanto italiana): Le inchieste del commissario Maigret, con Gino Cervi nel ruolo di Maigret e tutti gli altri attori che non gli erano da meno, a partire da Andreina Pagnani/la signora Maigret, intorno a lui. Sedici sceneggiati per complessive 35 puntate, picchi da 15, 16, 17, 18 milioni di spettatori, uno fra i parti plurimi più belli e fecondi di mamma Rai. Sicché qualche anno dopo fu deciso di riprovarci. Ma senza Maigret. La serie del '79 portava il titolo L'altro Simenon, le riduzioni tv (un tempo si diceva così, «riduzioni», in ossequio all'autore) furono soltanto quattro e il loro successo di pubblico, nonostante la qualità dei prodotti, fu molto, ma molto inferiore a quello registrato dall'inquilino di boulevard Richard-Lenoir & Co. Per gli spettatori, Simenon era Maigret/Cervi, e Maigret/Cervi erano Simenon. Stop, fine delle trasmissioni. Fra i quattro romans-durs di L'altro Simenon, due erano tratti da libri scritti negli Stati Uniti, a Shadow Rock Farm: Antoine et Julie nel '52, ma ambientato negli anni Venti, e Le grand Bob nel '54.

Simenon, che era sbarcato negli States il 5 ottobre 1945, si trasferì a Shadow Rock Farm il 4 luglio 1950, con la seconda moglie, la canadese Denyse Ouimet, sua ex dattilografa, sposata due settimane prima. La dimora presso Lakeville, nel Connecticut, gli piacque subito: quei muri di pietra all'ombra di una grande roccia e immersi in una foresta divennero il suo ultimo domicilio americano, prima del ritorno definitivo in Europa. Le prime parole che disse, quando vide la sua nuova casa furono: «somiglia un po' ai Vosgi e un po' alla foresta di Fontainebleau». La nostalgia della Francia si faceva già sentire... In 4 anni, 8 mesi e 15 giorni lì scrisse 26 libri, equamente divisi fra i Maigret e i romans-durs, una media di due mesi e spiccioli l'uno. Ma tra lui e l'America l'amore non sbocciò mai: non gli piacevano il moralismo di facciata e la libertà sbandierata a destra e a manca, ma non per tutti (vedi la caccia ai comunisti di McCarthy), e non pensò mai di prendervi la cittadinanza (del resto, non prese nemmeno quella francese). Forse, ciò che più gli mancava era Parigi.

Togliamo pure il «forse», dopo aver letto Il grande Bob, terminato il 24 maggio 1954, che ora torna in libreria (Adelphi, pagg. 166, euro 19, traduzione di Simona Mambrini) dopo l'edizione Mondadori del '62, nella collana - coincidenza? - «L'altro Simenon». C'è un particolare curioso: dalle parole di uno dei personaggi, la moglie di Bob, anzi la vedova di Bob, questo possiamo dirlo subito perché lo apprendiamo alla prima pagina, si ricava che l'oggi della narrazione è... il 1955, cioè il futuro, benché di breve gittata. Che Simenon avesse già deciso il rientro?

Il narratore che parla in prima persona è un amico di Robert «Bob» Dandurand, il dottor Charles Coindreau. Si sono conosciuti a Tilly, nell'Yvelines, una novantina di chilometri a ovest di Parigi, dove nella bella stagione i parigini si rilassano in una dimensione paesana, le donne chiacchierano e prendono il sole, gli uomini giocano a belote, tracannano «bianchini» e i più mattinieri vanno a pesca di lucci nelle basse acque del canale. Ma Bob non è mai stato mattiniero, tutt'altro. Gioco delle carte e bicchierate erano le sue uniche attività. Non che a Montmartre facesse molto altro, era sua moglie Lulu a mandare avanti una modisteria, con alcune collaboratrici. Quindi perché quella maledetta mattina è uscito prima dell'alba, da solo, a mettere in acqua la lenza? Qualcuno il giorno prima l'ha visto armeggiare con «un pesciolino, di legno o non so che cosa, appeso a un filo metallico». «Potrà sembrare strano, ma è un particolare importante, almeno ai miei occhi», dice fra sé (e per noi) Coindreau.

Simenon, da parte sua, non può che fare il Simenon, cioè il pescatore di anime, quelle dei lettori, e getta anche lui molte esche, descrivendo i membri della comunità che affitta abitualmente le stanze del Beau Dimanche o che abita dalle parti di Tilly. E getta esche anche a Parigi, ovviamente. Qualcuno ha ucciso Bob? Qualcuno avrebbe avuto motivo per farlo? Ma la pesca dell'Autore è il registro basico della storia, lo schema protocollare di ogni roman-dur, mentre ciò che più conta è quanto nuota in profondità, nella psiche di chi indaga (Coindreau) e di chi da lui viene interpellato («Ma al di là di quello che tutti, nessuno escluso, ci lasciano vedere di sé stessi, noi non sappiamo quasi niente degli altri»). Perché è chiaro come il sole di fine giugno sotto cui tutto ha inizio, e lo sarà fino alle brume dicembrine in cui tutto finirà, che Bob si è annegato, girandosi due volte una corda attorno alla caviglia destra dopo aver fissato all'altro capo della corda una grossa pietra. Dunque, il come e il chi sono certi. Dobbiamo scoprire il perché.

In Il grande Bob tutto procede a ritroso, di poche ore o di decenni. E da questo percorso a ostacoli disseminato di indizi emerge la figura di un uomo il quale, per usare un eufemismo, aveva scelto il basso, a volte bassissimo profilo. «D'accordo, era un fallito, come ho sentito ripetere a più riprese da quando è morto, ma un fallito lucido, consapevole, uno che aveva scelto di esserlo, e ai miei occhi assumeva all'improvviso una certa grandezza». Il grande Bob è un grande perché è un tipo normale.

La sua filosofia di vita sta tutta in una frase riportata dal marito di sua sorella: «In fondo, se ciascuno di noi s'incaricasse di rendere felice una sola persona, il mondo intero sarebbe felice». C'è chi la pensava come lui e, restituendogli il suo altruismo, fa la sua stessa fine.

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