
Nel 1952 Beatrice Frohlic, una donna che aveva vissuto in una comunità ortodossa e ne era uscita per le rigidità, scrisse una lettera a una delle più grandi celebrità del secolo: Albert Einstein. Il genio della fisica, il libero pensatore, l'ebreo fuggito dalla Germania di Hitler, il pacifista amico di Bertrand Russell e, secondo la vulgata, un ateo, o quantomeno un agnostico. Einstein le rispose con uno dei suoi aforismi: «L'idea di un Dio personale mi è del tutto estranea e mi sembra persino ingenua», però non si fermò lì e, quanto alla sua appartenenza alla cerchia dei liberi pensatori, specificò: «Il mio sentimento è religioso nella misura in cui sono pienamente cosciente di quanto la mente umana sia insufficiente a comprendere nel profondo l'armonia dell'Universo, che cerchiamo di formulare come leggi della natura. È questa consapevolezza e umiltà che non trovo nella mentalità del libero pensatore».
Forse Beatrice Frohlic si aspettava più solidarietà alla causa dell'agnosticismo, o forse fu soddisfatta per l'ennesima prova di libertà di pensiero offerta da Einstein. In ogni caso, la lettera resta una testimonianza preziosa di uno degli aspetti meno frequentati della vita e delle idee del fisico tedesco: la sua visione religiosa. Ora, in concomitanza con i settant'anni dalla morte di Einstein (avvenuta a Princeton il 18 aprile del 1955, all'età di 76 anni), arriva in libreria la sua «Biografia spirituale»: l'ha scritta Kieran Fox, neuroscienziato canadese appassionato di meditazione e laureato anche in studi religiosi, si intitola Sono parte dell'infinito ed è edita da Egea (pagg. 308, euro 26,90; traduzione di Luigi Civalleri). Fox prende in esame lettere, conversazioni, testi, viaggi e letture di Einstein; testimonianze nelle quali, se pur lo scienziato è distante da una fede codificata, per esempio dall'ebraismo della sua famiglia, o dalle chiese, non lo appare affatto da una dimensione spirituale profonda. Anzi, in molti passi insiste sul legame fra religione e scienza, intese come due facce della stessa medaglia, un senso del sacro che coinvolge tanto la natura quanto gli uomini nella loro unità (quella dei secondi, ovviamente, è un auspicio, o meglio un'utopia, che Einstein perseguì anche attraverso le sue famose battaglie pacifiste) al punto di parlare di una «religione cosmica». In questa «religione cosmica», l'uno è il tutto, e il tutto è l'uno, e il singolo, con la sua coscienza, è parte dell'infinito, così come l'infinito, nella sua immensurabilità, è nel singolo. Ne deriva che tutto è sacro, non ci sono dogmi, si sta in buona compagnia con gli eretici e uno degli obiettivi della vita è essere consapevole della propria «dignità di essere cosmico» (in cui si incarna l'Infinito). E anche che la scienza, lungi dall'essere osteggiata dalla spiritualità, con essa vada a braccetto. Per esempio: «Il sentimento religioso cosmico è la spinta più forte e nobile verso la ricerca scientifica». E anche: «Nella nostra epoca così materialista, gli scienziati sono i soli uomini profondamente religiosi» (così scriveva in Religione e scienza, apparso sul New York Times Magazine nel novembre del 1930, che si trova in Come io vedo il mondo, Newton Compton). O, secondo uno dei suoi aforismi più noti: «La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca».
Il perché di questo rapporto di reciproco sostegno risiede, secondo Einstein, nella natura matematica del cosmo. Ecco perché «l'immagine dell'universo fisico che ci viene presentata dalla scienza moderna è come un grande dipinto o un grande brano musicale che richiama lo spirito contemplativo, che è una caratteristica così marcata dell'anelito religioso e artistico». Alla base, insomma, c'è un concetto antico, che trovò i suoi natali nella Magna Grecia: l'armonia, che per i pitagorici era tutt'uno con il numero. «Se non avessi avuto una fede assoluta nell'armonia della creazione, non avrei cercato per trent'anni di esprimerla in una formula matematica» è una frase di Einstein, ma avrebbe potuto essere pronunciata da Pitagora, da Democrito, da Euclide, da Giordano Bruno, da Spinoza... Questi pensatori figurano infatti nelle letture di Einstein (i frammenti pitagorici attraverso Democrito, che lesse nella traduzione dell'amico Maurice Solovine) insieme alle ispirazioni dal mondo orientale (dove viaggiò), dalle Upanishad a Gandhi, dal Tao a Tagore, senza dimenticare Schopenhauer, che a quel mondo lo introdusse (lesse Parerga e Paralipomena a vent'anni). Insomma, la grande tradizione del panteismo.
A chi lo criticava
per queste sue posizioni, giudicandole ingenue o facilone, Einstein rispondeva citando il protagonista del libro che teneva sul suo comodino: «Riderei anche del folle Don Chisciotte, se non fossi anch'io un po' come lui».
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