A sfogliare le pagine dei giornali e del rotocalchi degli ultimi lustri si arriva a una conclusione amara anche se non necessariamente negativa sullo «stato delle cose» nel nostro Paese. Una verità su tutte emerge prepotente: i duri e puri, quelli per intenderci che hanno sempre sposato le ragioni del cuore con quelle dell'ideologia, sono apparentemente scomparsi. Tagliati fuori più che dalla Storia (che sinceramente, piccoli come sono e miope com'è la Storia medesima, nemmeno ci bada poi tanto) dalle consultazioni popolari degli ultimi decenni, i duri e puri hanno abbandonato la ribalta politica. E pensare che nel mezzo secolo che va dall'alba della Prima al tramonto della Seconda Repubblica, hanno sempre ottenuto per sé e per i loro accoliti posti di primo piano nella grande commedia del discutere e dell'amministrare la cosa pubblica.
E nel suo nuovo romanzo («I nostri occhi sporchi di terra», Baldini Castoldi Dalai editore, pp.304, 17,50 euro) Dario Buzzolan ci offre uno spaccato dei primi cinquant'anni della Repubblica italiana attraverso gli occhi e soprattutto attraverso i serrati dialoghi proprio di tre tipici personaggi dell'epoca. C'è il repubblichino mai pentito, il partigiano pieno di gloriosa allure e di raffinata cultura, e il «duro e puro» nato e cresciuto sul mito della Resistenza che, però, col tempo si adatta a una brillantissima carriera pagando l'insignificante prezzo dell'abiura dei princìpi. Un trasformismo che da noi, chissà poi perché, è sempre stata la cifra principe dell'uomo politico e di gran parte della classe dirigente.
Il racconto de «I nostri occhi sporchi di terra» parte dal suo epilogo, confezionato come il «la» di un perfetto thriller (genere già frequentato con successo dallo scrittore torinese, autore anche di «Non dimenticarti di respirare» del 2000 e «Tutto brucia» del 2003) per ripercorrere a ritroso le principali tappe di una Storia fin troppo discussa e «rielaborata» in questi anni di feroce (e corrivo) revisionismo.
Una giovane fotografa scopre che del padre (che non vede da anni) si sono all'improvviso perse le tracce e che si teme sia annegato nel Po. Siamo nel 1994. La ragazza è praticamente cresciuta da sola e senza certezze. La scomparsa del famoso genitore - tirato in ballo in un'intervista da un suo ex allievo e amico per un regolamento di conti tra partigiani e repubblichini a guerra già conclusa - non lascia soltanto un vuoto esistenziale nella vita della giovane ma un enorme rebus da sciogliere, risolto il quale - forse - la stessa Storia recente e passata potrebbe rivelare un volto nuovo (e magari meno indigesto).
Buzzolan sfrutta al meglio le sue capacità di rodato autore teatrale per affidare proprio ai dialoghi il compito di smascherare le reali intenzioni e inclinazioni dei protagonisti di questa storia. Davide Angelico, il filosofo con il passato da partigiano è costretto a subire uno dei primi processi studenteschi (siamo nel '56 alla vigilia dei «fatti di Ungheria») che nel corso degli anni Sessanta e Settanta avranno ben altra rilevanza e ben altra violenza e miopia ideologica. Il principale accusatore non è soltanto il suo migliore studente ma anche il futuro marito della sua giovane amante. E in questo sapiente rimescolamento di generi letterari e soluzioni narrative, Buzzolan consegna al lettore un romanzo affatto nuovo rispetto al panorama presente. Ci troviamo infatti di fronte a un romanzo autenticamente popolare che non si tira indietro di fronte alle urgenze e alle ambizioni della letteratura civile. Quella che per decenni è stata soltanto una chimera (basti pensare a tutti gli errori e le illusioni di scrittori come Pasolini, Silone, Pratolini, Volponi e Bilenchi, solo per fare qualche nome a caso), nelle pagine di Buzzolan acquista forma e sostanza. Lasciandoci addirittura un paio di pagine da antologia per le scuole (l'incontro nel 1961 del professor Angelico con il temutissimo Artemio Fabris di Carcare, già membro del Gran Consiglio del Fascismo e poi, subito dopo la guerra, notabile tra i più potenti e temuti della Democrazia Cristiana, e la rievocazione da parte dello stesso Angelico di uno dei tanti violenti scontri con il suo ex allievo, che qui val la pena di riproporre: «Si è messo a gridare che la mia scelta e quella di suo fratello, io partigiano lui repubblichino, si equivalevano. Tutti e due combattevamo per degli ideali. A quel punto ho gridato anch'io. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto... e la Storia non la raccontano i vincitori, come dici tu... ma semplicemente chi ha buona memoria»). Evitiamo di sciogliere il rebus che la giovane fotografa deve affrontare per rimettere a posto i pezzi della propria esistenza e di una importante fetta del nostro passato comune. Resta da aggiungere che il romanzo di Buzzolan ha il pregio non soltanto di accarezzare le naturali inclinazioni del lettore verso l'avventura e il melò, ma di mettere sul piatto della bilancia una tesi forte sul reale contributo della recente ondata di revisionismo storico. Alla fine lo scrittore torinese trova un imputato eccellente nel relativismo imperante di questi anni.
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