
Per combattere la ’ndrangheta bisogna riaprire gli armadi della Storia. L’omicidio del giudice Antonino Scopelliti è uno di quei delitti insoluti perché compiuti da più mani, su ordine di più soggetti, in un contesto complicatissimo in cui si mescolano strategia della tensione, manine e manone dei soliti servizi segreti, massonerie mafiose e faide interne alla magistratura.
Il 9 agosto 1991, poco prima delle 17.30, due sicari su una moto sorpresero e uccisero l’allora sostituto Pg presso la Corte di Cassazione, che tornava a casa sulla sua Bmw 318i nera dopo una giornata trascorsa al mare, nel tratto di strada nella frazione Ferrito di Villa San Giovanni, a Piale di Campo Calabro. Pentiti di mafia e ’ndrangheta dicono di sapere com’è andata, il fascicolo è in mano a Giuseppe Lombardo, procuratore facente funzioni della Dda di Reggio Calabria che indaga sulla misteriosa morte da molti anni ormai. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Fiume, legato a Giuseppe e Carmine De Stefano, i figli del super boss vittima illustre della seconda guerra di ‘ndrangheta Paolo De Stefano, i killer sarebbero tre e tutti reggini. Lo ha detto a Lombardo durante il processo Meta, pietra miliare nella ricostruzione della storia della ‘ndrangheta e cristallizza la pax mafiosa dopo la guerra che solo a Reggio fece 600 vittime, morto più morto meno, e la tripartizione della Calabria in tre mandamenti: Reggio, Jonica e Tirrenica. Ed è ancora Lombardo a coordinare i nuovi rilievi scientifici sul luogo dell’attentato in cui il giudice perse la vita, impreziositi dalla presenza della macchina che portava il magistrato - gelosamente custodita dai suoi familiari, da 34 anni a caccia di giustizia. I nomi Fiume li sa, lui stesso faceva parte di una élite di killer specializzati, definiti la «guardia regia» dei boss. I nomi li sanno anche i pm reggini: «Ci sono situazioni che, se non stiamo attenti, si corre il rischio che ci ammazzano», ha avvertito il pentito. Al «Giornale» il procuratore dice «parlerò, ma non oggi».
Colpito (anche) alla testa, Scopelliti morì sul colpo e l’automobile, priva di controllo, finì in un terrapieno tra filari di ulivi: per questo in un primo momento si pensò a un incidente stradale. La prima novità è il fucile utilizzato per uccidere il giudice. Si tratterebbe di una riproduzione della doppietta Arrizabalà calibro 12 di fabbricazione spagnola, fatta dalla Beretta su incarico della Procura di Reggio in base all’arma ritrovata nel 2018 nel Catanese grazie alle indicazioni dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che sostiene di aver fatto parte del commando, alla guida di una Honda Gold Wing come quella fatta arrivare dalla Scientifica sul luogo dell’agguato. La Procura di Caltanissetta lo considera poco credibile, molte delle affermazioni da lui fatte nel libro con Michele Santoro "Tutta la verità" non hanno avuto riscontri, come la sua presenza sul luogo dell’attentato a Paolo Borsellino.

Fu invece Giovanni Falcone a istruire il maxiprocesso di mafia su questo agguato contro Totò Riina e i sette boss della Commissione, finito con un’assoluzione come quello della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria nei confronti di Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè e Benenetto Santapaola dopo le condanne in primo grado nel 1996 e nel 1998. Secondo i pentiti di ‘ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca l’omicidio suggellò la pax mafiosa tra le famiglie di ’ndrangheta che si facevano la guerra in quegli anni e la cupola siciliana di Cosa Nostra, che in cambio della morte del giudice di Cassazione che doveva decidere sul maxiprocesso di Falcone e Borsellino riuscì a mettere d’accordo le famiglie calabresi in guerra. Sarebbe stato lo stesso Riina, latitante vestito da frate, a sbarcare a Reggio e mettere d’accordo tutti.
La morte di Scopelliti fermerà la seconda guerra di ’ndrangheta, non le condanne che la mafia aveva cercato in tutti i modi di far saltare. Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello detto il Supremo, il cugino Domenico, Antonino Imerti, Giovanni Tegano e Pasquale Libri si stringono le mani sporche del sangue altrui e – in lacrime – fanno la pace in nome degli affari attraverso una sorta di direttorio che ha ancora oggi in mano gli equilibri criminali a Reggio.
«A mio padre furono anche offerti 5 miliardi delle vecchie lire per corromperlo che lui rifiutò», ricorda la figlia Rosanna, già parlamentare di centrodestra. Una scelta che la figlia, che quel giorno aspettava il papà per mostragli come aveva imparato ad andare in bici, non ha mai giudicato eroica «ma normale, perché non si delega agli altri quello che tutti noi potremmo fare». Sulla morte di Scopelliti è calato un triste silenzio, un’indifferenza amplificata dalle assoluzioni di mandanti ed esecutori che la famiglia non ha mai accettato.
La ’ndrangheta dagli anni Settanta va a braccetto con massoneria deviata, schegge impazzite dei servizi segreti e borghesia mafiosa. Un Gotha di invisibili che si muovono dentro una «struttura piramidale visibile», militare, fatta di santini e di giuramenti.
È ormai monopolista nel narcotraffico, compra e vende droga anche per conto di mafia e camorra a cui restano le briciole, gioca con criptovalute, ricicla capitali enormi infiltrandosi nell’economia legale da Milano a Londra, qualcuno ha anche ipotizzato che la ’ndrangheta abbia gestito persino una parte della latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Ecco perché risalire ai responsabili della morte dei giudice Scopelliti può rimettere in discussione equilibri costruiti sul sangue di innocenti e mafiosi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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