Il trapano, il carruggio, il cold case mai risolto. "Per il killer Luigia era un oggetto"

L'omicidio di Luigia Borrelli resta un mistero. Nel 2023 le indagini sono state riaperte grazie a una trasmissione tv

Screen Mostri senza nome
Screen Mostri senza nome

Si chiamava Luigia Borrelli, ma tra alcune persone era conosciuta come “Antonella”, una prostituta nel carruggio. Erano gli anni ’90 e il centro storico di Genova iniziava a trasformarsi: lì, in vico degli Indorati 64, un’ex infermiera esercitava il mestiere più antico del mondo. Per necessità, per il ricatto degli eventi. Diventando la vittima di uno dei più truci delitti della storia della cronaca nera: il delitto del trapano.

Un cold case il suo, che però è stato riaperto grazie a Mostri senza nome, una serie di documentari in onda su Sky. “Il caso è stato riaperto grazie all’apporto della trasmissione di Creative Nomads e l’inchiesta del giornalista Marco Menduni” spiega a IlGiornale.it Francesco Esposito, criminologo forense, autore di diversi podcast sui cold case e collaboratore a propria volta di alcuni episodi della serie.

Chi era Luigia Borrelli

“Una donna elegantissima, amata da tutti”, Esposito la descrive così. Nel 1995 Luigia Borrelli aveva 42 anni. Aveva lavorato per molti anni all’ospedale San Martino di Genova, ma l’aveva lasciato nel 1992. Luigia era infatti nata a Iglesias, in Sardegna, ma si era trasferita a Genova negli anni ’70. Successivamente il marito aveva aperto un bar, ma l’attività non aveva riscosso il successo sperato. Così l’uomo si era indebitato a tal punto con gli usurai da non riuscire a reggere lo stress. Nel 1990 l’uomo muore a causa di un infarto e gli usurai si rivolgono a Luigia affinché ripaghi il debito del marito.

Luigia resta sola a badare ai due figli, un maschio e una femmina, Roberto e Francesca. E dopo aver lasciato il lavoro in ospedale inizia a prostituirsi all’interno di un basso in affitto da un’ex sex worker come lei, Adriana Fravega. Luigia ha un grande successo nella sua attività mondana: ascolta i clienti e si impegna in attività che oggi sarebbero considerate quasi comuni, come il ménage a trois. Questo suscita l'astio delle sue colleghe nel carruggio.

Sembra non saperlo nessuno cosa faccia la donna. Non lo sanno sicuramente i figli, non lo sanno nel suo quartiere: figli e vicini credono che la donna sia la badante di un’anziana signora. Ma “Antonella” ha molti clienti, forse anche nella “Genova Bene”. Lo sa sicuramente Adriana, che con Luigia ha un ottimo rapporto. Lo sa anche un operaio che ha effettuato dei lavori di manutenzione nel basso che la donna ha affittato. Lo sanno gli usurai, che attraverso quell’attività contano di rientrare delle loro somme prestate al marito.

L’omicidio

Il 5 settembre 1995 “Antonella” viene uccisa. E con lei muore anche Luigia. Sono proprio gli affetti di quest’ultima a dare l’allarme. Il giorno dopo la figlia Francesca non la vede rientrare e chiama Adriana: crede sia lei l’anziana presso cui la madre fa la governante di famiglia. Adriana si reca nel basso. Sono le 8.30, trova Luigia morta e chiama i carabinieri.

Le forze dell’ordine la ritrovano dissanguata, piena di ferite ed ecchimosi, con i denti spezzati e un trapano conficcato in gola. Il trapano è stato usato per infierire anche sulle spalle della donna. L’autopsia dà l’ora della morte: Luigia è stata aggredita e assassinata tra le 22 e le 23, ma è morta prima che il trapano le recidesse la gola. È chiaramente un atto di overkilling. Ma forse l’assassino ha voluto lasciare anche un messaggio.

“Il cadavere racconta sempre qualcosa - spiega Esposito - e l’offender lascia spesso un messaggio, ma per decodificarlo servono più elementi. La distruzione delle carni di Luigia ci dice solo un fatto: che per l’offender la vittima è un oggetto, anche in quanto prostituta. Azzardando un profilo, possiamo dire che il killer è un uomo tendenzialmente maturo, forte, più alto di Luigia, con un peculiare rapporto con la sessualità. Inoltre, quando c’è overkilling come in questo caso, significa che aveva un rapporto emotivo con la vittima”.

Le indagini e i suicidi

Il primo indiziato per gli inquirenti è il figlio Roberto. Ma c’è qualcosa sulla scena del crimine che permette di escludere indagati innocenti: insieme al sangue di Luigia c’è del Dna maschile, quello del killer. Roberto è innocente, il Dna non è il suo. “L’elemento più importante per le indagini è il Dna trovato sulla scena del crimine. È il Dna dell’offender ed è un elemento oggettivo, per via della precisione con cui si effettua il test, che ha una percentuale d’errore infinitesimale, legato soprattutto a eventuale contaminazione” chiarisce il criminologo.

E allora le attenzioni degli inquirenti si rivolgono a Ottavio Salis, un elettricista sardo di 52 anni, che aveva effettuato dei lavori nel basso in uso a Luigia ma era anche un suo cliente: forse aveva ricevuto anche un pagamento in natura. Ma tra i due c’erano stati dei dissapori e Luigia gli aveva chiesto di non tornare per ultimare gli aggiusti nel basso. A rivelarlo è Adriana, che si reca in commissariato per raccontare di Salis: è infatti suo il trapano trovato nel collo della vittima.

Salis viene mandato a chiamare ma di fronte al sostituto procuratore Patrizia Petruzziello non sa cosa dire, non riesce a provare la sua innocenza: il 14 settembre 1995 si suicida gettandosi da una sopraelevata. Lascia cinque biglietti, tra cui uno per la famiglia e uno per il commissariato. “Trovate l’assassino di Antonella” c’è scritto su quest’ultimo. Nei giorni successivi alla sua morte, il test del Dna gli dà ragione: Salis è innocente.

“A mio avviso - dice Esposito - Salis si suicida perché è accusato di un delitto turpe, ma è talmente innocente da non riuscire a trovare la sua voce. Non ha né i mezzi né le forze per provare la sua innocenza. È molto comune per questo tipo di reati, quando si accusa ingiustamente un soggetto che presenta qualche tipo di rapporto con la vittima”.

Così Petruzziello interroga anche gli usurai, ma anche stavolta è un buco nell’acqua. Non solo smentiscono di aver prestato il denaro al marito di Luigia dietro il pagamento di un alto interesse, ma si presentano come “amici di famiglia”. E il Dna non appartiene a nessuno di loro.

Il 25 marzo 1996 Adriana si uccide con i barbiturici, forse schiacciata dal senso di colpa, non solo per ciò che è accaduto a Luigia, ma anche per il suicidio di Salis. È solo il secondo suicidio di questa vicenda: nel 2014 si toglie la vita anche Roberto, affetto da tempo da una patologia psichiatrica, in una modalità che ricorda molto il suicidio di Salis.

“Adriana era una ‘madame’ - aggiunge Esposito - una prostituta di una volta, che insegnava la vita e il rispetto per le donne. Si toglie la vita perché si sente in colpa: se un soggetto non presenta uno degli elementi della maschera della psicopatia, è particolarmente dura vivere una doppia vita. Adriana era una bravissima persona che non ce l’ha fatta a resistere a tutto questo”.

Non mancano episodi che vengono considerati potenzialmente promettenti. Nel 1999 in Sardegna, un aspirante suicida - un padre separato cui la famiglia della moglie avrebbe impedito di vedere la figlia, almeno stando alle sue dichiarazioni - afferma che l’ex suocera, che gestiva un albergo a Genova, aveva accolto un uomo ferito e sporco di sangue alle 23 del 5 settembre 1995. Gli inquirenti ritengono il dettaglio interessante: l’ora del decesso di Luigia non è un particolare diffuso. Ma l’uomo ritratta: dice di averlo fatto per rivalsa nei confronti dell’ex suocera. Tuttavia lascia alla figlia un biglietto in cui racconta che la nonna starebbe coprendo il killer di un’infermiera.

Nel 2004 giunge agli inquirenti una lettera anonima in cui si legge: “Sono io il mostro del trapano. Anni fa ho compiuto un omicidio, non sono mai stato preso. Ho paura di finire per sempre in galera, la mia vita sta cambiando”. Ma purtroppo con solo questo dato non si è potuto fare molto.

Fino al 2023 almeno, ovvero l’anno di riapertura delle indagini, grazie a una trasmissione televisiva, Mostri senza nome su Sky. Un giornalista de Il Secolo XIX, Marco Menduni, è stato infatti contattato, dopo la messa in onda della puntata, dalla figlia di un’altra ex infermiera del San Martino, una collega di Luigia. “È accaduto qualcosa di straordinario in Italia, che negli Stati Uniti succede già da tempo: ovvero la tv che crea la realtà e la realtà crea la tv” illustra il criminologo.

La figlia aveva ricordato il racconto della madre: il giorno dopo l’omicidio aveva visto recarsi al lavoro un primario ricoperto di graffi e lividi. È stato detto che l’uomo avrebbe potuto essere, forse, un cliente di “Antonella”, ma è un'ipotesi non riscontrabile: in ogni caso il Dna non apparteneva a lui, e inoltre l’uomo era defunto da tempo. “Il primario, dal punto di vista del profiling, avrebbe potuto rappresentare un soggetto particolare.

Si dice - ma è morto e quindi non si può confermare questo - fosse burbero e scontroso, con un atteggiamento scostante nei confronti delle infermiere. Si sarebbe potuto pensare a lui come una persona capace di commettere un omicidio di genere? Il Dna non era il suo, è stato scagionato” conclude Esposito.

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