Da più di mezzo secolo la conquista del potere e l'esercizio del governo seguono strade che non s'incontrano più: da quando i processi di secolarizzazione hanno emancipato le opinioni pubbliche da vincoli tradizionali e appartenenze obbligate; da quando l'individuo ha smesso di abbracciare la stessa fede politica «dalla culla alla bara». Da allora, le élites politiche non possono più contare su retroterra stabili. E la loro azione, per forza di cose, si è fatta sempre più demagogica: attenta alla ricerca del consenso, anche a scapito delle necessità di governo.
Quando si verificò questo cambiamento epocale, vi fu chi provò a ricomporre la distanza tra potere e governo attraverso una revisione delle istituzioni. La nascita della V Repubblica in Francia, in particolare, rivista e corretta dall'elezione diretta del Presidente, rappresentò in tal senso una svolta della politica occidentale. Affidando al popolo la scelta del Capo dello Stato, concesse legittimità a un rapporto non più mediato tra cittadini e potere. E invertendo l'importanza fin lì attribuita a Parlamento ed esecutivo, fece in modo che tale concessione alla «democrazia del pubblico» non fosse pagata in termini di governabilità. Si trattò di un successo. Dopo i disastri delle guerre di decolonizzazione, la Francia riuscì a rilanciarsi come media potenza anche grazie alle sue istituzioni. Queste, non a caso, sono state un modello per molti Paesi transitati alla democrazia. E per noi italiani, che le riforme istituzionali le abbiamo ricercate invano per oltre un cinquantennio, hanno a lungo rappresentato un motivo d'invidia.
Oggi stiamo assistendo a una sorta di contrappasso. Ciò che a lungo ha aiutato i francesi, gli si sta rivoltando contro. Sia chiaro: la crisi che l'Esagono sta vivendo è di natura sociale più che politica. Consiste in un prolungato rifiuto ad accettare che i trente gloriouse - gli anni della grande crescita che hanno segnato il dopoguerra - siano per sempre svaniti; che le conquiste sociali che affondano le radici in quel tempo debbano obbligatoriamente essere ripensate; che in un mondo in tumultuoso cambiamento le rendite di posizione a livello internazionale, volenti o nolenti, vadano messe in discussione. A differenza di ieri, però, le istituzioni non aiutano più: invece di agevolare le soluzioni di governo, sembrano renderle più remote. Il fatto è che in Francia, ancor più dopo la riforma del «quinquennato», la conquista del potere passa essenzialmente per l'elezione del Presidente della Repubblica. Ogni atto politico viene pensato in relazione a tale obiettivo. Per questo i socialisti sono rimasti così tanto a lungo appiccicati a Melenchon (nella foto), pur non condividendone la gran parte delle posizioni: temono di dare all'alleato scomodo il vantaggio di un'opposizione solitaria che possa avvantaggiarlo alle prossime presidenziali. Sull'altro versante, per questa stessa ragione, Marine Le Pen ha fatto cadere il gollista Barnier pur sapendo che il prossimo Primo Ministro potrebbe essere più spostato a sinistra: non vuole correre il rischio di ritrovarsi nel suo campo di gioco un concorrente, magari transitato per una positiva prova di governo. Viene quasi da pensare che tutti vogliano conquistare il potere ma nessuno sia interessato a governare il Paese.
Questo è il lascito della stagione di Macron, che volge ineluttabilmente al termine. In attesa che giunga chi non si spaventi di fronte al compito d'affrontare i problemi socioeconomici del Paese. Per poi mettere in discussione istituzioni a lungo «modello, ma oggi non più adeguate.
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